Giuseppe Rossi: “Io che sfidavo Messi e Ronaldo”

Una stella falcidiata  dagli infortuni decide  di ritirarsi nella piena  consapevolezza  del suo percorso
Giuseppe Rossi: “Io che sfidavo Messi e Ronaldo”
Alessandro Di Nardo

Per comprendere a pieno quanto il dolore possa cambiare una persona basta parlare con Giuseppe Rossi, 38 anni compiuti da poco, un monumento vivente alla precarietà del talento. Il dolore che cambia, migliora e si trasforma in accettazione - e poi in serenità -. A palla (quasi) ferma, in attesa del congedo che avverrà davanti al suo pubblico, a Firenze, Pepito ripensa alla sua carriera con lucidità e una serenità zen, consapevole di aver fatto il massimo e che, nonostante quanto passato, ne sia valsa la pena.

Una parola per descrivere la tua carriera?

«Guerriero. Mi piace molto».

Come mai?

«Non so quanti avrebbero avuto la forza di ripartire da capo ogni volta, per quante volte son caduto io».

È stato un viaggio lungo vent'anni.

«Sì, sono grato per quello che ho vissuto e molto fiero per come sono riuscito a ripartire sempre anche dai momenti più brutti. Sto cercando di mettere a fuoco, anche se delle volte penso ancora da calciatore».

Cioè?

«Ho ancora quell'impulso. Quel fuoco. Il pensiero che "sì, perché no, posso ancora scendere in campo e divertirmi", è la mentalità dello sportivo. E la passione per il gioco».

Un viaggio lungo vent'anni dicevamo. Tra Stati Uniti, Inghilterra, Italia e Spagna. Qual è il miglior Rossi della carriera?

«Direi quello a metà dell'esperienza al Villarreal, 2011/12. E poi certo, i sei mesi alla Fiorentina, annata 2013/14. Lì ero a un altro livello rispetto agli altri». In che senso? «Mi sentivo imprendibile. Ero forte e in più sapevo di esserlo. Potevo cambiare le partite in un attimo. Sono cose che un calciatore prova solo in determinati momenti, poi alcuni riescono anche a mantenere quello stato di grazia per sempre, ma si parla di Messi e Ronaldo».

A proposito di Messi o Ronaldo. Dopo di loro, in quegli anni in Liga c'eri tu.

«Sì prima dell'infortunio del 2011 ero tra i primi cinque calciatori del campionato, perché poi c'erano anche giocatori come Xavi e Iniesta. Sarebbe stato bello avere la possibilità di mantenere quel livello per qualche anno e non dover ripartire sempre».


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Il grosso rimpianto è quello?

«Rimpianto direi di no, è andata così. La storia è quella e comunque ho vissuto dei momenti incredibili al Villarreal: in certi periodi mi riusciva tutto. I compagni venivano da me e mi dicevano "Dai Pepito, vincila per noi". Questa è la sensazione più bella che ho provato nel mondo del calcio».

Come si fa a ricominciare da capo dopo aver provato quelle sensazioni?

«Accettando che ci sono cose che non puoi controllare. Questo concetto mi ha aiutato negli ultimi anni di carriera, anche se alcune domande, anche pericolose, te le fai».

Tipo?

«Pensi sempre che sia tutto finito, di non poter tornare a certi livelli, che il calcio è andato per te. Il problema non è mai stato il dolore in sé ma il dover convivere con la mentalità e la passione che avevo, che mi spingevano a riprovarci sempre. Questa è stata anche la mia fortuna».

Ma quindi… come si riparte?

«Dipende tutto dalla tua reazione, quello lo puoi controllare. Io ho voluto sempre reagire, non mi piace fare la vittima».

Dopo due lesioni al crociato col Villarreal sei però tornato alla grande con la Fiorentina.

«Sì. A Firenze ho trovato una seconda casa, anche a livello letterale visto che ci ho preso una casa».

Sai che a Firenze si ricordano di te anche per una data e una partita speciale. 20 ottobre 2013, Fiorentina-Juventus 4-2, Giuseppe Rossi per tre.

«Lo so bene, ogni 20 ottobre ricevo migliaia di messaggi di persone che mi ringraziano».

Se chiudi gli occhi e ripensi a quel pomeriggio, che sensazioni hai?

«La sensazione di essere dentro a una pagina di storia. Mi ricordo bene tutto, soprattutto le facce dei tifosi, piangevano tutti. Sono tornato in campo dopo due ore di festeggiamenti e lo stadio era ancora pieno. Poi da quel giorno ho mangiato gratis per due-tre settimane».

Cosa ti rimane a quasi dodici anni da quella partita?

«Di sicuro una bellissima storia da raccontare».

Pochi mesi dopo, 5 gennaio 2014, un'altra partita, stavolta da dimenticare. Fiorentina-Livorno, gara in cui subisci l'ennesimo infortunio al ginocchio.

«Sì, incredibile. Purtroppo quello è stato il mio destino. Toccare il cielo con un dito, con quella prestazione contro la Juve, e poi…».

E poi… quel fallo di Rinaudo. L'hai perdonato?

«Sì, è stato un fallo di gioco, pazienza. Fa parte dello sport e lui non voleva farmi male. Ci siamo rincontrati a Livorno qualche mese dopo e abbiamo parlato, non ce l'ho con lui».


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Quell'infortunio ti fece di fatto saltare il Mondiale in Brasile.

«In realtà ero tornato a fine stagione e mi sentivo bene. Purtroppo non sono stato scelto. Ho cercato di fare il meglio per esserci».

Com'è andata?

«Sono state scelte. Posso solo dire che stavo bene, ero tornato a giocare e avevo segnato nelle ultime gare di campionato, poi ai test fisici a Coverciano ero andato molto bene. Peccato, ci tenevo tantissimo…».

Quindi questo è un rimpianto?

«No, torniamo al punto su cui insisto sempre. Cosa potevo fare più di quello? Nulla, non è stata una decisione mia, io ho dato il massimo. Avevo il controllo sulla mia reazione all'infortunio ed è stata ottima. Poi per il resto, di nuovo, non posso controllare quello che non dipende da me».

Guardando a ritroso tutto quanto, c'è una partita che vorresti rigiocare?

«Sì, la finale di Coppa Italia del 2014. Fiorentina-Napoli, abbiamo perso 3-1, io avevo appena recuperato e non ero al 100%».

In quella finale, sul 2-1, c'è un contropiede in cui ci siete tu e Ilicic, che tira alto…

«Non mi ci far ripensare (smorfia di sofferenza, ndc)».

Quella Fiorentina meritava di più?

«Non so, so solo che eravamo una squadra fortissima. E che giocava benissimo, ci trovavamo tutti a memoria, eravamo molto tecnici, uno spettacolo da vedere. Ed era proprio bello giocarci insieme».

Era una squadra da grandi traguardi?

«Di sicuro era da Champions. Poi erano anni complicati, in cui la quarta non andava in Champions. Noi siamo arrivati per tre volte quarti...».

Forse l'allenatore più importante per te l'hai conosciuto all'inizio in Inghilterra, cioè Sir Alex Ferguson.

«Sì, è stato fondamentale, mi considerava come un figlio. Questo lo faceva con tutti».

Cosa ti ha colpito di lui?

«Mi aspettavo forse una sorta di divinità anche negli atteggiamenti con gli altri, invece era una persona alla mano. Proteggeva ogni giocatore e trattava tutti allo stesso modo».

Per la tua partita d'addio, in programma il 22 marzo prossimo al Franchi, ci sarà anche lui. L'hai sentito anche negli scorsi anni?

«Sì. Cinque anni fa volevo rimettermi in gioco e ho chiesto a Ferguson se potevo allenarmi con lo United per qualche giorno. Lui mi ha risposto subito e ha parlato con l'allenatore di allora, Solskiaer. La sua disponibilità per uno che aveva conosciuto anni e anni fa mi ha stupito. L'ho rivisto poi a Manchester in quel periodo ed era rimasto uguale».

E sul compagno di squadra invece? Con chi ti trovavi meglio?

«Borja Valero e Gonzalo Rodriguez, due con cui ho giocato sia in Spagna che a Firenze. Con entrambi c'era una chimica incredibile, i loro passaggi erano perfetti per uno come me, fortissimi e sui piedi. Con due così diventava tutto più facile».


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Venendo alla Fiorentina di oggi. Ti aspettavi un rendimento del genere?

«Devo dire di no. Ma Palladino lo conosco, ci ho giocato in Under21 e al Genoa; sta facendo un gran lavoro, le sue idee di calcio si vedono in ogni gara. Vediamo se riusciranno a mantenere questo ritmo, puntando magari all'Europa League come obiettivo finale».

Sabato non ci sarà Kean, squalificato.

«Io sono a disposizione (ride, ndc)».

Si sarebbe trovato bene con uno come Kean come compagno di reparto?

«Sì, saremmo stati una coppia super. Ha caratteristiche diverse dalle mie. Lui che attacca la profondità, io che vengo incontro, sì ci saremmo trovati bene».

E per la Nazionale: Kean, Retegui o Lucca?

«Sono attaccanti simili. La differenza la farà l'adattabilità al gioco di Spalletti. Nei loro club, Fiorentina, Atalanta, Udinese, ogni compagno gioca per loro. In Nazionale è diverso».

C'è un Giuseppe Rossi in Serie A?

«Il mio ruolo è un po' sparito. Io ero un nove e mezzo, né attaccante né trequartista. Poi in generale ora il gioco è più veloce, si va a mille, si spinge tanto sulle fasce e sulla fisicità. Va bene, a me piace però più il calcio ragionato».

Non si rivede in nessun calciatore attuale quindi?

«Forse Dybala. Lui in qualche giocata mi somiglia».


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Per comprendere a pieno quanto il dolore possa cambiare una persona basta parlare con Giuseppe Rossi, 38 anni compiuti da poco, un monumento vivente alla precarietà del talento. Il dolore che cambia, migliora e si trasforma in accettazione - e poi in serenità -. A palla (quasi) ferma, in attesa del congedo che avverrà davanti al suo pubblico, a Firenze, Pepito ripensa alla sua carriera con lucidità e una serenità zen, consapevole di aver fatto il massimo e che, nonostante quanto passato, ne sia valsa la pena.

Una parola per descrivere la tua carriera?

«Guerriero. Mi piace molto».

Come mai?

«Non so quanti avrebbero avuto la forza di ripartire da capo ogni volta, per quante volte son caduto io».

È stato un viaggio lungo vent'anni.

«Sì, sono grato per quello che ho vissuto e molto fiero per come sono riuscito a ripartire sempre anche dai momenti più brutti. Sto cercando di mettere a fuoco, anche se delle volte penso ancora da calciatore».

Cioè?

«Ho ancora quell'impulso. Quel fuoco. Il pensiero che "sì, perché no, posso ancora scendere in campo e divertirmi", è la mentalità dello sportivo. E la passione per il gioco».

Un viaggio lungo vent'anni dicevamo. Tra Stati Uniti, Inghilterra, Italia e Spagna. Qual è il miglior Rossi della carriera?

«Direi quello a metà dell'esperienza al Villarreal, 2011/12. E poi certo, i sei mesi alla Fiorentina, annata 2013/14. Lì ero a un altro livello rispetto agli altri». In che senso? «Mi sentivo imprendibile. Ero forte e in più sapevo di esserlo. Potevo cambiare le partite in un attimo. Sono cose che un calciatore prova solo in determinati momenti, poi alcuni riescono anche a mantenere quello stato di grazia per sempre, ma si parla di Messi e Ronaldo».

A proposito di Messi o Ronaldo. Dopo di loro, in quegli anni in Liga c'eri tu.

«Sì prima dell'infortunio del 2011 ero tra i primi cinque calciatori del campionato, perché poi c'erano anche giocatori come Xavi e Iniesta. Sarebbe stato bello avere la possibilità di mantenere quel livello per qualche anno e non dover ripartire sempre».


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