
Per comprendere a pieno quanto il dolore possa cambiare una persona basta parlare con Giuseppe Rossi, 38 anni compiuti da poco, un monumento vivente alla precarietà del talento. Il dolore che cambia, migliora e si trasforma in accettazione - e poi in serenità -. A palla (quasi) ferma, in attesa del congedo che avverrà davanti al suo pubblico, a Firenze, Pepito ripensa alla sua carriera con lucidità e una serenità zen, consapevole di aver fatto il massimo e che, nonostante quanto passato, ne sia valsa la pena.
Una parola per descrivere la tua carriera?
«Guerriero. Mi piace molto».
Come mai?
«Non so quanti avrebbero avuto la forza di ripartire da capo ogni volta, per quante volte son caduto io».
È stato un viaggio lungo vent'anni.
«Sì, sono grato per quello che ho vissuto e molto fiero per come sono riuscito a ripartire sempre anche dai momenti più brutti. Sto cercando di mettere a fuoco, anche se delle volte penso ancora da calciatore».
Cioè?
«Ho ancora quell'impulso. Quel fuoco. Il pensiero che "sì, perché no, posso ancora scendere in campo e divertirmi", è la mentalità dello sportivo. E la passione per il gioco».
Un viaggio lungo vent'anni dicevamo. Tra Stati Uniti, Inghilterra, Italia e Spagna. Qual è il miglior Rossi della carriera?
«Direi quello a metà dell'esperienza al Villarreal, 2011/12. E poi certo, i sei mesi alla Fiorentina, annata 2013/14. Lì ero a un altro livello rispetto agli altri». In che senso? «Mi sentivo imprendibile. Ero forte e in più sapevo di esserlo. Potevo cambiare le partite in un attimo. Sono cose che un calciatore prova solo in determinati momenti, poi alcuni riescono anche a mantenere quello stato di grazia per sempre, ma si parla di Messi e Ronaldo».
A proposito di Messi o Ronaldo. Dopo di loro, in quegli anni in Liga c'eri tu.
«Sì prima dell'infortunio del 2011 ero tra i primi cinque calciatori del campionato, perché poi c'erano anche giocatori come Xavi e Iniesta. Sarebbe stato bello avere la possibilità di mantenere quel livello per qualche anno e non dover ripartire sempre».