Il Peter Pan di un tempo ha lasciato ora spazio a un Gianmarco Pozzecco riflessivo, maturo. Però sempre pronto ad andare controcorrente e a dire anche cose scomode. Il commissario tecnico della Nazionale maschile di basket ha compiuto 52 anni il 15 settembre e dal suo buen retiro di Formentera guarda alla stagione del basket tricolore che nel weekend alzerà il sipario con la Supercoppa.
Pozzecco ha ricevuto bei regali?
«Sono stati festeggiamenti sobri, in famiglia. Con mia moglie, mia figlia e una coppia di amici siamo andati a cena fuori, poi presto a casa. Chissà cosa pensa la gente di me, non faccio più vita mondana. Le cose più belle le ho dentro le mura di casa mia e mi bastano. Anzi una è fuori, perché aggiungo, tra ciò che mi sta nel cuore c’è la Nazionale. Quello è stato un regalo fantastico. Me lo ha fatto il presidente Petrucci quando mi ha dato la panchina azzurra».
Ci saranno presto le elezioni per il rinnovo delle cariche in Fip. Facile pensare per chi voterebbe.
«Certo, sarebbe ipocrita dire che non sostengo il mio presidente. L’affetto che nutro per lui va oltre il rapporto professionale che abbiamo. Petrucci quando sceglie lo fa sempre con il cuore, ma anche con tanto raziocinio. Ha ancora molto da dare al nostro movimento. Credo di poter dire che in questi anni abbiamo fatto un bel lavoro. All’Europeo abbiamo perso con la Francia, una partita che ricordiamo bene. Al Mondiale siamo caduti con gli Usa. A Parigi la finale è stata tra queste due squadre. Non aggiungo altro».
C’è chi magari pensa il contrario.
«Il giocatore in campo è facile da giudicare. Ci sono le cifre, il rendimento, i risultati che fanno una somma. Per un allenatore è più complicato perché esistono fattori palesi, che appaiono agli occhi di tutti, e tante variabili. El loco Bielsa ha detto che una partita ha dei fattori diversi che determinano il finale. E quindi il giudizio sull’allenatore». AAAChiaro. Allora se al sesto minuto di recupero il Genoa non avesse pareggiato ora De Rossi sarebbe ancora sulla panchina della Roma? «Perché cosa è successo?».
Non ha saputo, esonerato per far posto a Juric.
«Cosa? Questa è pura follia. Non ci credo, non lo sapevo. Se il mio cuore è per un pezzetto giallorosso è per De Rossi. Daniele è una persona vera. Vorrei sapere con quale criterio hanno deciso. Ci vorrei parlare, è una cosa pazzesca. Poi si dice che le bandiere non esistono più. C’è chi evidentemente si diverte ad ammainarle».
Torniamo al basket. Sabato si comincia a fare sul serio con la Supercoppa.
«È un bel banco di prova. Io l’ho vinta da giocatore con Varese nel 1999 e poi con Sassari nel 2019. Ci si arriva sempre con un po’ di tensione e solo chi la vince alla fine non ha stress. Chi perde si chiede: ho costruito la squadra giusta? La chimica sarà quella che volevamo? Si possono insinuare dubbi. Di certo ogni tanto ci scappa qualche bella sorpresa».
E il campionato sarà segnato dalla solita sfida tra Milano e Virtus Bologna?
«Le due big hanno allestito squadre di ottimo livello cambiando sì, ma conservando anche una base solida. Il duopolio se gestito come facciamo in Italia dove i controlli sui bilanci sono rigidi - e questo è un altro merito di Petrucci - ha ragione di esistere e rende merito a chi compie grandi investimenti. Però non credo a una stagione segnata. Io vedo almeno 10 squadre in grado di giocarsela per un torneo equilibrato e spettacolare. Dove, me lo auguro, trovino spazio i giocatori italiani».
A proposito si avvierà il ricambio generazionale?
«Già prima del preolimpico abbiamo chiamato alcuni ragazzi interessantissimi a cui vogliamo aggiungerne altri. Ma non riempiamoci la bocca con la parola giovani. Vanno protetti e fatti crescere. Non si può scaricare su di loro il peso di troppe responsabilità».
Come procede il lavoro con Datome, il nuovo responsabile delle nazionali maschili?
«Benissimo. È un percorso duro, che ci porterà a risultati importanti. Non possiamo decidere solo noi sotto l’ala protettrice della Fip. C’è bisogno di un cammino comune con le leghe, con i giocatori, con gli allenatori. Con tutto il movimento insomma. Fosse per me farei scelte drastiche, tipo la Spagna: meno spazio agli extracomunitari. Perché per i giocatori italiani, come per gli spagnoli, è più facile crescere ed affermarsi stando accanto ad atleti del proprio continente che masticano la stessa lingua cestistica».
Per chiudere un pensiero per Peppe Poeta, prossimo all’esordio da head coach con Brescia.
«La prima cosa che ho fatto quando Peppe ha firmato è stata chiamare Miro Bilan (pivot della Germani ndc). Loro sono due dei miei più grandi amici, quelli a cui, quando ho bisogno di parlare di qualcosa, faccio una telefonata. In Peppe mi ci rivedo, anche se lui rispetto a me ha bruciato i tempi. Allena da due anni appena ed è già un grande concentrato di conoscenza. Non quella tecnica o tattica, che un ex giocatore come lui acquisisce negli sul parquet, ma analitica, pratica e gestionale. Farà benissimo, ne sono certo».