Di Bartolomei, il capitano ventriloquo
Intanto però il calcio cambiava e tu lo vedevi arrivare, il cambiamento. In Vierchowod, nel Liverpool. Nei predicatori che si abbeveravano ai cataloghi di schemi. Arrivò Eriksson e non sapeva dove metterti. Ti mandarono al Milan, e venne Sacchi a chiederti dinamismo e pressing. Liedholm, che ti amava centrocampista e ti faceva recitare da libero, era già un tipo di allenatore fuori produzione. In queste ore ti ricordano la Roma e il Milan, e anche la Salernitana, dove si misero a piangere quando scegliesti di smettere. Hanno avuto almeno questo privilegio, che senza volerlo hai negato agli altri. Ma chissà quanti ti rammentano davvero. È cambiato il pianeta. È cambiata la tecnologia. Oddio, è cambiata anche Roma. Se guardi giù non la riconosci ed è meglio così. Ma non del tutto. Almeno oggi non potresti più dire, come facevi un tempo, di essere nato a Shanghai, nel senso di un alveare disordinato, una Shanghai di fantasia, case rotte e strade infangate, com’era Tor Marancia prima che ci mettessero mano e la gentrificassero. Lo dicevi ridendo, è naturale, dato che sapevi perfettamente ridere pure se non si scorgeva bene sul viso immobile e in mezzo alla peluria blanda. Ridevi come parlavi, rauco e basso. Ah, ecco un altro modo in cui ti chiamavano: il capitano ventriloquo. Eppure ti ascoltavano.
Di Bartolomei, solo e abbandonato: ma non l'unico
Non riconosceresti un mucchio di cose. La Garbatella, dove andavi a giocare nell’oratorio più vicino, anch’essa oggi gentrificata per bene. La Nazionale, che all’epoca ha sempre ritenuto di poter fare a meno di te e oggi ti pregherebbe di prendere la palla e tirare in porta. La Roma sì la riconosceresti: siamo sempre là a cavallo di un sogno e sotto la panca della paura della mediocrità, come ai tempi del tuo presidente preferito Dino Viola. Anche il Milan più o meno è sempre quello, nobile e tormentato. E tuo figlio Luca è tuttora in giro a combattere contro l’uso delle armi e a scrivere di te chiamandoti Ago. Lo sai meglio di chiunque altro, se ancora sai qualcosa e noi abbiamo la presunzione di credere sia così: non sei stato l’unico della tua generazione romanista a sentirti solo e abbandonato. Francesco Rocca, che debuttò insieme con te grazie a Helenio Herrera, ha consegnato le ginocchia alla squadra. Paulo Roberto Falcao ha avuto i suoi guai, Roberto Pruzzo ha avuto pensieri neri simili ai tuoi, ma li ha scavalcati con la sua ligure rudezza. Sebino Nela ha combattuto per la sua vita. E così via.
Di Bartolomei, spiegaci perché
È il tempo che scorre e schianta, mentre non ce ne accorgiamo. Ma qualcosa in cambio hai avuto, anche se non basta. La canzone in cui De Gregori mescola un po’ di te e un po’ di Bruno Conti e che ancora oggi ferma il traffico quando esce dalla radio o da Spotify: sì, quella che insegna a non aver paura dei calci di rigore e soprattutto che gli sconfitti sono sempre molti di più dei vincitori. Hai avuto il dono naturale di essere insieme arciere e araldo, di possedere contemporaneamente il tiro letale e il lancio che tagliava il campo intero e atterrava pulito sul tacco di Falcao o sul collo del piede dell’attaccante. Hai avuto l’intelligenza dell’autodidatta di talento, la cultura del popolo e dell’accademia, un esperto di calcio, Camillo Anastasi, che è venuto a vederti e ti ha capito quando altri ti avevano scartato. Hai avuto l’amore di una famiglia, l’ammirazione di un popolo, anzi, almeno di tre, lungo tutta l’Italia. Sei stato Agostino Di Bartolomei. E adesso, per favore, spiegaci perché non ti è sembrato abbastanza.