Roma, un Ago nel cuore: il mondo del calcio non smette di piangerlo

Capitano storico dei giallorossi, idolo con Milan e Salernitana: si tolse la vita il 30 maggio 1994 con un colpo di pistola
Roma, un Ago nel cuore: il mondo del calcio non smette di piangerlo© Bartoletti
Marco Evangelisti

Ma cosa accidenti hai combinato, Agostino? E ringrazia il cielo, tu che stai lì, se abbiamo promesso di non scrivere una parola volgare in vita nostra, in caso contrario altro che accidenti. Ma cosa hai combinato trent’anni fa, mirandoti al cuore e facendo centro, ovviamente, figurati se sbagliavi proprio quel tiro, quello che avresti dovuto sparare all’aria vuota, quello a cui avresti dovuto rinunciare, fermarti sulla rincorsa. Ma tu non hai mai rinunciato a mezza idea se ne eri convinto, vero? Tiralo tu questo rigore, Ago, anche se è il primo della finale di Coppa dei Campioni, mentre noi non riusciamo neppure a guardare. E leggilo tu questo libro, Ago, poi ce lo racconti, anche se poi ti scrutano strano nel mondo in cui hai scelto di vivere, non solo i giocatori come te ma pure allenatori, preparatori, professori senza titolo, presidenti. Come si chiamano i tizi che ti piacciono? Dostoevskij, Bellow? e chi accidenti sono, perdonaci di nuovo per l’accidenti?

Di Bartolomei, la notte del Liverpool

Tanto è così che finiamo tutti, no? Soli. Dimenticati. In una casa che può essere alla periferia di una città, una periferia tipo Tor Marancia, dove sei nato, o a Castellabate, in provincia di Salerno, dove sei morto e hanno pure ambientato un film famoso copiando e sfregiando un gioiellino di cinema francese. Trent’anni fa, eppure sembra niente. Non è che sembri ieri, sembra proprio niente. Alla Roma sono arrivati altri capitani, qualcuno apparentemente eterno, qualcuno perché serviva un braccio a cui appoggiare la fascia. Ma per i vecchi tifosi, per quelli che la notte del Liverpool e dei rigori strazianti e del vino bevuto per dimenticare anziché per festeggiare, per quelli che hanno saltato esami all’università e colloqui di lavoro per non perdersi la finale di Coppa dei Campioni all’Olimpico, il Capitano sei sempre stato tu. Quello che i tifosi delle altre squadre per disperazione chiamavano Ninna Nanna e loro per esaltazione Dinamite. Fischiavano punizione dal limite: lo stadio taceva perché era come un gol, o almeno un rigore. Il tuo piede destro poteva essere ferro o piuma, senza preferenze. Quella sera fu ferro, e il portiere Grobbelaar pensò che fosse meglio cominciare a ballare invece di esporre la faccia a simili stangate. Gli andò bene, alla fine, perché non tutti erano Agostino Di Bartolomei e il piede di altri era pasta oppure cristallo. 

Di Bartolomei, dare troppo e ricevere poco

Aspetta, come ti chiamavano ancora? Zio DiBa, in assonanza con un personaggio dei fumetti horror al quale la tua faccia bianca in qualche modo ti accostava. E in altri venti modi sfuggenti alla memoria. Vedi tu se quel giorno in cui hai deciso che avevi visto troppo e dato troppo e ricevuto poco in cambio e ti puntasti la pistola al cuore - quella pistola che avevi preso per difendere te e la tua famiglia in anni feroci in cui tanti uscivano e non tornavano e c’era chi la chiamava politica - non era stato annunciato da presagi e simboli. Dieci anni esatti dopo la partita con il Liverpool. Il penultimo giorno del maggio il primo del quale era caduto Ayrton Senna. Mica avevi paura di essere dimenticato, vero? E come avremmo mai potuto? D’accordo, finché eri tra noi lo avevamo fatto. Qualcuno lo aveva fatto, almeno. Non ti concedevano i prestiti che ti servivano per le tue iniziative sportive, ti rifiutavano mutui, non capivano che cosa ti stava succedendo dentro. Perdona loro, perdona a tutti noi perché non capivamo. Non abbiamo capito ancora, del resto. Che cosa vuoi che spieghi quel biglietto lasciato a tua moglie Marisa, che si chiude «ti adoro, e adoro i nostri splendidi ragazzi, ma non vedo l’uscita dal tunnel». Abbiamo dato perfino la colpa ai libri che leggevi di continuo, troppi per un calciatore. O al calcio, che aveva commesso il peccato di cambiare più velocemente di quanto tu riuscivi a correre. Erano belli i tempi in cui Liedholm negli spogliatoi diceva: oggi Ago gioca più avanti, tanto dietro c’è il russo. E Vierchowod si preparava a un’altra giornata di inseguimenti agli attaccanti avversari a trecento all’ora. Ma così la Roma vinse lo scudetto, nel 1983, e anche senza Vierchowod (però con Bruno Conti, Falcao, Cerezo) l’anno dopo passò per l’Europa come un musical itinerante, a passo lento, gorgheggiando e incantando.  


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Di Bartolomei, il capitano ventriloquo

Intanto però il calcio cambiava e tu lo vedevi arrivare, il cambiamento. In Vierchowod, nel Liverpool. Nei predicatori che si abbeveravano ai cataloghi di schemi. Arrivò Eriksson e non sapeva dove metterti. Ti mandarono al Milan, e venne Sacchi a chiederti dinamismo e pressing. Liedholm, che ti amava centrocampista e ti faceva recitare da libero, era già un tipo di allenatore fuori produzione. In queste ore ti ricordano la Roma e il Milan, e anche la Salernitana, dove si misero a piangere quando scegliesti di smettere. Hanno avuto almeno questo privilegio, che senza volerlo hai negato agli altri. Ma chissà quanti ti rammentano davvero. È cambiato il pianeta. È cambiata la tecnologia. Oddio, è cambiata anche Roma. Se guardi giù non la riconosci ed è meglio così. Ma non del tutto. Almeno oggi non potresti più dire, come facevi un tempo, di essere nato a Shanghai, nel senso di un alveare disordinato, una Shanghai di fantasia, case rotte e strade infangate, com’era Tor Marancia prima che ci mettessero mano e la gentrificassero. Lo dicevi ridendo, è naturale, dato che sapevi perfettamente ridere pure se non si scorgeva bene sul viso immobile e in mezzo alla peluria blanda. Ridevi come parlavi, rauco e basso. Ah, ecco un altro modo in cui ti chiamavano: il capitano ventriloquo. Eppure ti ascoltavano.

Di Bartolomei, solo e abbandonato: ma non l'unico

Non riconosceresti un mucchio di cose. La Garbatella, dove andavi a giocare nell’oratorio più vicino, anch’essa oggi gentrificata per bene. La Nazionale, che all’epoca ha sempre ritenuto di poter fare a meno di te e oggi ti pregherebbe di prendere la palla e tirare in porta. La Roma sì la riconosceresti: siamo sempre là a cavallo di un sogno e sotto la panca della paura della mediocrità, come ai tempi del tuo presidente preferito Dino Viola. Anche il Milan più o meno è sempre quello, nobile e tormentato. E tuo figlio Luca è tuttora in giro a combattere contro l’uso delle armi e a scrivere di te chiamandoti Ago. Lo sai meglio di chiunque altro, se ancora sai qualcosa e noi abbiamo la presunzione di credere sia così: non sei stato l’unico della tua generazione romanista a sentirti solo e abbandonato. Francesco Rocca, che debuttò insieme con te grazie a Helenio Herrera, ha consegnato le ginocchia alla squadra. Paulo Roberto Falcao ha avuto i suoi guai, Roberto Pruzzo ha avuto pensieri neri simili ai tuoi, ma li ha scavalcati con la sua ligure rudezza. Sebino Nela ha combattuto per la sua vita. E così via.

Di Bartolomei, spiegaci perché

È il tempo che scorre e schianta, mentre non ce ne accorgiamo. Ma qualcosa in cambio hai avuto, anche se non basta. La canzone in cui De Gregori mescola un po’ di te e un po’ di Bruno Conti e che ancora oggi ferma il traffico quando esce dalla radio o da Spotify: sì, quella che insegna a non aver paura dei calci di rigore e soprattutto che gli sconfitti sono sempre molti di più dei vincitori. Hai avuto il dono naturale di essere insieme arciere e araldo, di possedere contemporaneamente il tiro letale e il lancio che tagliava il campo intero e atterrava pulito sul tacco di Falcao o sul collo del piede dell’attaccante. Hai avuto l’intelligenza dell’autodidatta di talento, la cultura del popolo e dell’accademia, un esperto di calcio, Camillo Anastasi, che è venuto a vederti e ti ha capito quando altri ti avevano scartato. Hai avuto l’amore di una famiglia, l’ammirazione di un popolo, anzi, almeno di tre, lungo tutta l’Italia. Sei stato Agostino Di Bartolomei. E adesso, per favore, spiegaci perché non ti è sembrato abbastanza. 


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Ma cosa accidenti hai combinato, Agostino? E ringrazia il cielo, tu che stai lì, se abbiamo promesso di non scrivere una parola volgare in vita nostra, in caso contrario altro che accidenti. Ma cosa hai combinato trent’anni fa, mirandoti al cuore e facendo centro, ovviamente, figurati se sbagliavi proprio quel tiro, quello che avresti dovuto sparare all’aria vuota, quello a cui avresti dovuto rinunciare, fermarti sulla rincorsa. Ma tu non hai mai rinunciato a mezza idea se ne eri convinto, vero? Tiralo tu questo rigore, Ago, anche se è il primo della finale di Coppa dei Campioni, mentre noi non riusciamo neppure a guardare. E leggilo tu questo libro, Ago, poi ce lo racconti, anche se poi ti scrutano strano nel mondo in cui hai scelto di vivere, non solo i giocatori come te ma pure allenatori, preparatori, professori senza titolo, presidenti. Come si chiamano i tizi che ti piacciono? Dostoevskij, Bellow? e chi accidenti sono, perdonaci di nuovo per l’accidenti?

Di Bartolomei, la notte del Liverpool

Tanto è così che finiamo tutti, no? Soli. Dimenticati. In una casa che può essere alla periferia di una città, una periferia tipo Tor Marancia, dove sei nato, o a Castellabate, in provincia di Salerno, dove sei morto e hanno pure ambientato un film famoso copiando e sfregiando un gioiellino di cinema francese. Trent’anni fa, eppure sembra niente. Non è che sembri ieri, sembra proprio niente. Alla Roma sono arrivati altri capitani, qualcuno apparentemente eterno, qualcuno perché serviva un braccio a cui appoggiare la fascia. Ma per i vecchi tifosi, per quelli che la notte del Liverpool e dei rigori strazianti e del vino bevuto per dimenticare anziché per festeggiare, per quelli che hanno saltato esami all’università e colloqui di lavoro per non perdersi la finale di Coppa dei Campioni all’Olimpico, il Capitano sei sempre stato tu. Quello che i tifosi delle altre squadre per disperazione chiamavano Ninna Nanna e loro per esaltazione Dinamite. Fischiavano punizione dal limite: lo stadio taceva perché era come un gol, o almeno un rigore. Il tuo piede destro poteva essere ferro o piuma, senza preferenze. Quella sera fu ferro, e il portiere Grobbelaar pensò che fosse meglio cominciare a ballare invece di esporre la faccia a simili stangate. Gli andò bene, alla fine, perché non tutti erano Agostino Di Bartolomei e il piede di altri era pasta oppure cristallo. 

Di Bartolomei, dare troppo e ricevere poco

Aspetta, come ti chiamavano ancora? Zio DiBa, in assonanza con un personaggio dei fumetti horror al quale la tua faccia bianca in qualche modo ti accostava. E in altri venti modi sfuggenti alla memoria. Vedi tu se quel giorno in cui hai deciso che avevi visto troppo e dato troppo e ricevuto poco in cambio e ti puntasti la pistola al cuore - quella pistola che avevi preso per difendere te e la tua famiglia in anni feroci in cui tanti uscivano e non tornavano e c’era chi la chiamava politica - non era stato annunciato da presagi e simboli. Dieci anni esatti dopo la partita con il Liverpool. Il penultimo giorno del maggio il primo del quale era caduto Ayrton Senna. Mica avevi paura di essere dimenticato, vero? E come avremmo mai potuto? D’accordo, finché eri tra noi lo avevamo fatto. Qualcuno lo aveva fatto, almeno. Non ti concedevano i prestiti che ti servivano per le tue iniziative sportive, ti rifiutavano mutui, non capivano che cosa ti stava succedendo dentro. Perdona loro, perdona a tutti noi perché non capivamo. Non abbiamo capito ancora, del resto. Che cosa vuoi che spieghi quel biglietto lasciato a tua moglie Marisa, che si chiude «ti adoro, e adoro i nostri splendidi ragazzi, ma non vedo l’uscita dal tunnel». Abbiamo dato perfino la colpa ai libri che leggevi di continuo, troppi per un calciatore. O al calcio, che aveva commesso il peccato di cambiare più velocemente di quanto tu riuscivi a correre. Erano belli i tempi in cui Liedholm negli spogliatoi diceva: oggi Ago gioca più avanti, tanto dietro c’è il russo. E Vierchowod si preparava a un’altra giornata di inseguimenti agli attaccanti avversari a trecento all’ora. Ma così la Roma vinse lo scudetto, nel 1983, e anche senza Vierchowod (però con Bruno Conti, Falcao, Cerezo) l’anno dopo passò per l’Europa come un musical itinerante, a passo lento, gorgheggiando e incantando.  


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