Pagina 2 | Gigi Riva, la Sardegna era tutto il suo mondo

Gigi caro Gigi: certo non sono questi i momenti ideali per trovare le parole, ma noi tutti qui fuori sentiamo comunque il bisogno infantile di dire e di esprimere qualcosa, perché sei dei nostri, perché sei dei migliori, e certo non sarà questo passaggio fatale a cambiare il tuo cuore, il cuore che amiamo noi, un cuore che resterà sempre grande, forte, indomito, nobile. Un cuore che fa bene al nostro cuore. Magari non ha alcun senso stare qui adesso a elencare le ragioni, il perché e il percome, di questo legame così forte, passato attraverso le correnti del tempo, di generazione in generazione, di Italia in Italia. Ma all’altro capo del filo che ci lega, che nessuna morte fetente troncherà mai, c’è da mezzo secolo una mitologia dolcissima, c’è l’atleta statuario contraltare dell’abatino, con le tartarughe vere non tatuate agli addominali, la mandibola squadrata da gladiatore, la sigaretta per amica, e quel tiro alla dinamite, staffilate e stangate da incrinare i pali, l’unica bomba che piacerebbe sempre vedere, l’unica bomba artistica e innocua che spaventava solo i portieri. Erano gli anni ancora vergini di internet e dei trapper, erano gli anni del poco che bastava perché sembrava tutto, gli anni in cui le mamme spendevano i primi soldi del boom lavandoci col Pino Silvestre Vidal e sciogliendo l’Ovomaltina nel latte a colazione, sperando di farci più robusti e più muscolosi, perché Ovomaltina dà forza, e se c’era da fare un esempio venivi buono proprio tu, giovane ala sinistra – solo sinistra, esclusivamente sinistra, spudoratamente sinistra – col fisico del Big Jim.


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Alla scoperta dell'Isola

La storia statistica è disponibile su tutti i testi e su tutte le Wikipedia, basta cliccare e c’è una leggenda, eri del ‘44 e dopo un campionato in C a Legnano ti toccò subito la scelta dell’esploratore, lasciare il bozzolo di Leggiuno, un borgo defilato e sconosciuto, per avventurarti nell’Isola, che non era di Arturo mai dei sardi, prima molto prima delle combriccole placcate di Porto Cervo e del Billionaire, la Sardegna ancora orgogliosamente chiusa in se stessa e su se stessa. Era il ‘63, morivano il Papa Buono e il miglior Kennedy, la Sardegna era sulla luna, ma non servì molto tempo per ritrovarti bandiera e sovrano di quel reame asciutto e ispido, nel territorio e nell’anima, ma tenace e leale, esattamente come te. Eri sardo dentro, almeno un po’, e la fusione fu totale. Che bello adesso riassumere i 14 anni di quell’epopea, fino al ‘77, un’epopea di reciproca fedeltà, di reciproca gratitudine, di reciproca adorazione. E di baldoria generale al Sant’Elia. Sì, mentre i Beatles diventavano i Beatles e poi svanivano nei dissapori, il Cagliari di Gigirriva (i sardi non sono mai riusciti a dirne una sola) diventava la prima bella favola del calcio moderno, quella poi ripetuta dal Verona di Bagnoli, dal Nottingham Forest, dallo stesso Leicester di Ranieri, una di quelle storie che non piacciono ai manager palancai delle Superleghe perché rompono l’anima al bel mondo dei loro affari, dove gioca solo chi porta il pallone e dove vincono solo i soci del circolo.


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Lo Scudetto del Cagliari

Un giorno, quella favola stramba arrivò al suo lieto fine con lo scudetto, era la squadra di Niccolai che firmava come un Picasso pelato autogol surrealmente artistici, era la squadra del Filosofo Scopigno in panchina, un mister che come Socrate di mare fondò la sua scuola socratica, un aforisma una sigaretta, una massima una sigaretta, una verità una sigaretta, poi una sigaretta una sigaretta. Era quel Cagliari diventato paradigma di tutte le rivincite e di tutti i riscatti popolari, ma da quella volta fu innanzi tutto il Cagliari di Gigirriva (mai una sola), premessa e trampolino poi per la nazionale di Gigirriva, perché all’epoca del sanguinoso dualismo Mazzola-Rivera tu eri il punto fermo, indiscutibile e inamovibile, la vera unità nazionale ante-litteram, mettessero Rivera o Mazzola, mettessero chiunque s’inventassero, ma là davanti c’era una certezza e per piacere almeno quella vediamo di servirla a dovere, lancio lungo, corsa travolgente e spallate taurine, infine quel sinistro terribile come un sinistro stradale. Caro Gigi, resti il miglior marcatore in azzurro (35 gol in 42 presenze), resti campione d’Europa del ‘68 e vicecampione del mondo nel ‘70, hai i gradi e le medaglie della mitologica Italia-Germania 4-3, ma lascia che per quei particolari anni, gli anni più creativi, più fertili, più colorati del Dopoguerra (sì, anche di nero, perché i colori li avevano proprio tutti), lascia che tra i tanti idealismi e le tante poetiche di quel clima irripetibile rimanga come un emblema e un modello il tuo coraggio - cocciuto e inverosimile - di dire no alla Juve, quando la Juve era la Juve e un suo desiderio era un ordine, in Fiat avevano pronto l’assegno di un miliardo, per te ingaggi da mettere i piedi sulla scrivania dei banchieri, eppure quel Gigirriva disse no grazie, resto qui, per parlare la lingua d’oggi come dire no a Miami o all’Arabia: il fatto è che la tua Arabia l’avevi già sottocasa, non la bella vita della sguaiata società, ma la vita bella della Sardegna profonda, con il vento leggero dal mare, mezzo bicchiere di Cannonau a pasto e quel calore muto, senza finte cerimonie, di una gente devota come sposa e sorella. Attraverso gli anni, le generazioni, le Italie, il campione di allora e l’ambasciatore azzurro del dopo hanno sempre lasciato nel cuore del Paese il segno tenero e sublime di un’umanità sobria, ferma, garbata. Il segno di un eccezionale uomo qualunque. E’ per questo, amato Gigi, che proprio mentre il tuo cuore si fermava, questo cuore italiano ha cominciato a battere più forte. Facili da riconoscere, palpitazioni d’amore.


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Alla scoperta dell'Isola

La storia statistica è disponibile su tutti i testi e su tutte le Wikipedia, basta cliccare e c’è una leggenda, eri del ‘44 e dopo un campionato in C a Legnano ti toccò subito la scelta dell’esploratore, lasciare il bozzolo di Leggiuno, un borgo defilato e sconosciuto, per avventurarti nell’Isola, che non era di Arturo mai dei sardi, prima molto prima delle combriccole placcate di Porto Cervo e del Billionaire, la Sardegna ancora orgogliosamente chiusa in se stessa e su se stessa. Era il ‘63, morivano il Papa Buono e il miglior Kennedy, la Sardegna era sulla luna, ma non servì molto tempo per ritrovarti bandiera e sovrano di quel reame asciutto e ispido, nel territorio e nell’anima, ma tenace e leale, esattamente come te. Eri sardo dentro, almeno un po’, e la fusione fu totale. Che bello adesso riassumere i 14 anni di quell’epopea, fino al ‘77, un’epopea di reciproca fedeltà, di reciproca gratitudine, di reciproca adorazione. E di baldoria generale al Sant’Elia. Sì, mentre i Beatles diventavano i Beatles e poi svanivano nei dissapori, il Cagliari di Gigirriva (i sardi non sono mai riusciti a dirne una sola) diventava la prima bella favola del calcio moderno, quella poi ripetuta dal Verona di Bagnoli, dal Nottingham Forest, dallo stesso Leicester di Ranieri, una di quelle storie che non piacciono ai manager palancai delle Superleghe perché rompono l’anima al bel mondo dei loro affari, dove gioca solo chi porta il pallone e dove vincono solo i soci del circolo.


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