È morto Eugenio Scalfari. Questo non è un coccodrillo, è un’emozione. È il ricordo di un giornalista di provincia che, approdato a Roma nel lontano 1986, mentre stava entrando per la prima volta nel palazzo del Corriere dello Sport di piazza Indipendenza dalla laterale via dei Mille, fu bloccato dalla polizia in armi: si era fermata un’auto scortata, ne era sceso un signore elegante, dritto come un fuso, si era infilato nella porta rotante ed era sparito. Era lui, il mitico Barbapapà protagonista della scena editoriale da decenni, in particolare ai tempi dell’Espresso - che leggevo da sempre - e proprio lì, affidandosi alla competenza, ai mezzi tecnici e all’ospitalità di Franco Amodei, editore e stampatore del Corriere dello Sport, aveva dato vita al fenomeno giornalistico di Repubblica.
Stavamo entrando lui e io - a debita distanza - nel palazzo dei miracoli: milioni di copie partorite prima dal Corriere dello Sport dell’82 poi da Repubblica dell’85 dopo un inizio faticoso che sarebbe diventato boom con “Portfolio”, il gioco moltiplicatore delle vendite. Finché nel dicembre dell’Ottantasei il giovane tabloid/Berlino riusciva nel clamoroso sorpasso dell’antico Corriere della Sera, 510.000 copie contro 487.000. Nel frattempo già si raccontavano le storie della mattiniera riunione del quotidiano gestita da Scalfari - parola di Augias - come un evento teatrale. Anche se c’era chi poteva ricordare l’analogo e rivoluzionario incontro quotidiano di Antonio Ghirelli con il suo staff: lezioni di giornalismo.
Ho avuto rari incontri con Scalfari: in tipografia, quando Orlandone - il Tipografo Eccellente - si dava da fare per riservare a me - diventato direttore - le stesse attenzioni. Un balletto. C’incontravamo qualche volta anche nel piccolo ascensore che portava lui al terzo piano, me al sesto: Scalfari guardava in alto, silenzioso. Come se fosse solo. Era così. Come il mio primo direttore Giovanni Spadolini.
Succedeva anche che avessimo problemi in comune - scioperi, assemblee, ritardi tipografici - e li trattavo con il suo alter ego operativo, Gianni Rocca, colui che guidava la realizzazione del giornale. Ne approfittava, cordialissimo, per parlare del suo Torino. Ero certo allora - non ci sono dubbi oggi - che Eugenio Scalfari sarebbe entrato nella storia. Da inguaribile cronista ho colto al volo anche quell’occasione per arricchire il mio carnet di conoscenze e esperienze di Grandi Vecchi. Un giorno Enzo Ferrari mi disse «Scalfari? Un grande attore del nostro tempo». Esatto.