Si è spento dopo 98 anni di una vita che ciascuno sogna, lasciando un’impronta che solo i grandi protagonisti della storia possono incidere. Eugenio Scalfari è un protagonista assoluto del secolo scorso, rivoluzionario in ognuno dei numerosi campi in cui si è cimentato, dall’economia alla politica, dal giornalismo alla filosofia. Un pensatore e divulgatore discusso come ogni innovatore, ma incontestabile sul piano della produzione e della trasparente genuinità intellettuale, senza timore di apparire incoerente o peggio voltagabbana. Traghettatore con Berlinguer della democratizzazione del Pci, s’innamorò temporaneamente di Ciriaco De Mita; seguace di Diderot e Voltaire, ha vissuto gli ultimi anni dialogando col gesuita Papa Francesco. «Il rifiuto di cambiare idea appartiene ai poveri di mente», diceva. L’idea geniale la maturò e realizzò con Carlo Caracciolo, compagno di mezza vita e socio della più ingegnosa impresa editoriale della storia.
Ha chiuso gli occhi con il desiderio della morte. Di una morte così: senza sofferenza e, ne era certo, senza un dopo. Il desiderio è stato il motore della sua vita. Diceva che l’uomo, l’”io”, si nutre di desiderio. Lui li ha soddisfatti quasi tutti i suoi desideri, dall’amore per le due donne della sua vita alla scalata professionale, dal successo dei sui libri all’armonia con le figlie fino all’indagine introspettiva su se stesso che ha accompagnato l’ultima tappa della propria esistenza.
Come ogni uomo di successo, non seminava simpatia a larghe manciate. Alcuni lo paragonavano a un contenitore di difetti, superbo, divisorio, persino razzista. Bastava che lui gettasse loro un’occhiata di sufficienza perché su Eugenio cadessero secchiate di acqua sporca. È nella natura umana denigrare l’essere che ritieni superiore ma non ti accarezza.
Devo ammettere che sì, era abbastanza selettivo, narcisista, ovviamente autoritario e decisionista, ombre velate dal fascino del seduttore, ma anche pronto ad ascoltare, assorbire e fare dietro front. Un esempio. Calcistico. Premetto: nel mercato giornalistico del 1976 ero passato dal Corriere dello Sport a Repubblica, a mezzo servizio fra lo sport - che il giornale scalfariano considerava come Briatore può considerare una pizza a taglio - e altre mille incombenze tra le quali mi agitavo come un’anguilla in cerca di una tana definitiva. Mondiali 1978. Il vice direttore Gianni Rocca la spunta sullo scetticismo del direttore e mi spedisce in Argentina. Faccio uno/due pezzi al giorno, soprattutto parlando delle malefatte di quel maiale di Videla. Saverio Tutino, esperto di America latina, rinforza di quando in quando da Roma. Finché un giorno mi chiama Scalfari: «Franco, bisogna dare più spazio al Mondiale, dobbiamo fare almeno due pagine al giorno, se vuoi ti mando un rinforzo. Sandro Viola, ti va bene?». Risposi che Viola era un giornalista troppo bravo e celebre per quel che sarebbe stato necessario, un cronista di gamba svelta da due articoli al giorno che avrei facilmente trovato fra gli inviati di tutto riposo dei settimanali. Arruolai Marco Giovannini di “Panorama”. Ma perché Scalfari aveva d’un tratto elevato lo sport ad evento da prima pagina? Perché alla condanna del regime militare e al dramma dei desaparecidos Repubblica aveva deciso di affiancare con eguale dignità i gol di Rossi e Bettega? Ecco perché.
10 giugno 1978, cena nella casa di Scalfari in via Nomentana. Ospiti illustri, come sempre, da Enzo Siciliano e Francesco Cossiga. Cossiga, come tutti i democristiani, era malvisto da Enrica e Donata Scalfari, giovani pci: vendevano l’Unità ai semafori fino a che il padre non impose loro di accoppiare anche “Repubblica” al quotidiano comunista, e nella loro stanza avevano un manifesto “Kossiga boia”. Quella sera le due ragazze Scalfari avevano preferito cenare nella propria camera. Verso le 21 il padrone di casa e sua moglie Simonetta si accorsero che pian pianino, alla chetichella, uno dopo l’altro i commensali avevano abbandonato la tavola per trasferirsi nel salotto davanti al televisore. Si giocava Italia-Argentina. Eugenio e sua moglie si guardarono negli occhi come se avessero visto un cercopiteco passeggiare sulla tovaglia. Anch’essi, quando il frastuono salì, si trasferirono nel salone: i loro ospiti, scamiciati, si stavano abbracciando: Bettega aveva segnato, l’Italia stava battendo la favoritissima squadra locale - che avrebbe poi conquistato la Coppa attraverso indicibili schifezze ordinate da Videla – approdando alla seconda fase.
La mattina successiva, Scalfari raggiunse la redazione di buon’ora, chiamò Rocca, gli disse che il Mondiale d’Argentina era il tema del momento. Più dell’austerity, del terrorismo, forse alla pari con le dimissioni di Giovanni Leone dalla presidenza della Repubblica di cinque giorni dopo.
Al mio ritorno fui convocato in direzione e incaricato di formare la prima, vera redazione sportiva di Repubblica. Non guidarla, perché cominciò allora la mia girandola di incarichi, ma formarla. Ebbe inizio un puzzle straordinario, una specie di canzoncina di Sergio Endrigo “Ci vuole un fiore” o “Alla fiera dell’est” di Angelo Branduardi: presi la Audisio e Mura (che già collaboravano) e poi Sconcerti, il quale prese Brera, che prese Clerici. Per merito di quel gol di Bettega, Repubblica realizzò la più prestigiosa redazione sportiva di un giornale generalista. Non so se quella fu per di più la causa del rinnovato vigore giallorosso di Scalfari. «Io sono sempre stato romanista», disse nel corso di una delle celebri riunioni del mattino, seguito da una storica gaffe: «Fin dai tempi di Silvio Piola».
Come giocatore era quanto meno discutibile. Lo affrontai una volta - quando Repubblica non era neanche in gestazione - in una tradizionale sfida annuale Panorama-Espresso: era legnoso, correva col busto eretto come sempre, scoordinato. Ma come allenatore, un fuoriclasse. Allenatore di redazioni, intendo, sul piano di un Antonio Ghirelli che avevo avuto in precedenza al Corriere dello Sport. Sapeva insegnare, indirizzare, motivare. Sapeva disporre gli uomini giusti al posto giusto. Sapeva fare squadra. Sapeva allenare anche le teste. Quando ebbi con lui ore e ore di confronto per la stesura del libro sulla storia di Repubblica, mi chiese d’un tratto se avessi letto tutti i libri che tanti anni prima mi aveva consigliato. Gli dissi di sì. Non ho mai trovato il coraggio di una confessione: avevo abbandonato i “Saggi” di Montaigne dopo poche decine di pagine. E ora temo che possa scoprirlo.