La rottura tra Paola Egonu e il ct Davide Mazzanti ha fatto il giro delle nostre pance. Non solo volley, non solo sport: molto di più. Un simbolo, una metafora, dell’eterna lotta fra i capricci del talento, la frusta e la frustrazione del domatore. Rudolf Nureyev ammoniva: «Se non mi esercito per un’ora, me ne accorgo io; se non mi esercito per un mese, ve ne accorgete voi». Ma non è questione di palestra. Il nodo coinvolge “le” e “i” fuori dalla classe (in gergo, fuoriclasse) e coloro i quali dovrebbero integrarle/li con il resto del branco.
Quante Iliadi in loro nome. Ettore Messina, ai tempi della Virtus, non si vergognava di concedere piccoli privilegi a Sasha Danilovic. Per tacere di Gigi Riva a Cagliari: allenamenti rigorosamente di pomeriggio. Arrigo Sacchi e Marco Van Basten non si sono mai amati. Eppure, insieme, hanno costruito uno dei Milan più belli e più grandi. Una domenica, a Cesena, Sacchi lo portò in panchina: «Finalmente potrai spiegarmi la tattica». Nella sua biografia “Fragile, la mia storia”, Marco rammenta un siparietto di Milanello. Disteso sul lettino dei massaggi, affrontò Arrigo che deambulava ieratico: «Mister, voglio che sia chiara una cosa. Tu continui a dire che siamo vincenti proprio perché abbiamo lavorato con te, io invece vorrei metterla diversamente. Non abbiamo vinto tutti quei premi perché ci sei stato tu, ma nonostante ci fossi tu». Un colpo sotto la cintura. Il vate ha sempre smentito il celeberrimo «O io o lui»: conosceva le preferenze di Silvio Berlusconi (“Lui”) e - avvilito, spremuto - stava per salire sull’ambulanza della Nazionale inviatagli in soccorso da Antonio Matarrese.
Per Heriberto Herrera, Omar Sivori valeva Alberto Coramini, rincalzo della Maginot juventina. Omar se la legò al tunnel e schifato, dopo aver chiesto invano la testa del ginnasiarca paraguagio, emigrò a Napoli, accolto come un re d’ausilio e non in esilio. Gli archivi pullulano degli stracci volati, a Trigoria, fra il Luciano Spalletti di ritorno e un Francesco Totti riluttante a mollare il trono. Non senza gli effetti speciali di Ilary Blasi, quando ancora i Rolex di famiglia decoravano i polsi e non le arringhe.
Il caso più eclatante ed emblematico concerne Michael Jordan. All’epoca in cui pilotava i Chicago Bulls, Phil Jackson, il tecnico zen che richiamava i giocatori al suono di un tamburo, affinché gli spiriti si svegliassero ed entrassero in sintonia con i corpi, aveva un modo tutto suo per relazionarsi con la squadra e, in particolare, con il suo Totem. Lo ha ricordato Bill Wennington, centro di riserva, nel libro “Michael Jordan, la vita” firmato da Roland Lazenby: «Ogni volta che c’era un problema con Michael in una riunione, diventava “noi dobbiamo fare questo”. Se riguardava me, in compenso, mi diceva: “Bill, tu devi fare il tagliafuori”. Un problema di Michael era un problema che riguardava “noi”. Agli altri diceva: “Steve (Kerr), devi prenderti quel tiro”. Se Michael si dimenticava un tagliafuori, diventava: “Bene, noi dobbiamo fare il tagliafuori adesso”». Un po’ di adrenalina, un po’ di vaselina: e più non sdottorare.