Aveva la pazienza di portare il progetto sino all’esecuzione finale. Metteva in piedi una strategia che tendeva a illudere l’altro, fino a fargli credere che potesse andare a colpire duro. Lo spingeva a osare. Era il momento giusto per tirare quelli che, in gergo, si chiamano colpi girati. Ganci e montanti, appunto. E la storia si chiudeva lì. Su un campo da tennis, Sinner ricorda Monzon sul ring anche nell’atteggiamento mentale. Non ha perso la calma, né la sicurezza in finale quando Fritz, avanti 5-4, è andato a servire per il terzo set. Gli spettatori esaltati, l’americano carico a pallettoni, Jannik in sofferenza per qualche errore di troppo. Un attimo dopo l’italiano andava alla risposta, il seguito della storia lo conoscete tutti. C’è solo la partita nella testa di Jannik. Niente urla, niente lamentele, nessuna racchetta spaccata. Dritto, rovescio, qualche smorzata, rare discese a rete. Ha capito, e Cahill&Vagnozzi lo hanno spinto lungo questo sentiero, che la sua natura non prevede risse. In campo deve fare solo quello che gli riesce meglio, tirare più forte di tutti («Ti porta via la racchetta» ha detto Paul). Ha soffiato sulla polvere che copriva l’essenziale del suo gioco ed è salito in cima al mondo. Come ha fatto Monzon nel primo match contro Benvenuti.
Nessuna sceneggiata, nessuna parola fuori posto. Ha messo knock out l’eroe di casa e, subito dopo avere tirato il colpo, si è girato ed è tornato verso l’angolo. Non sentiva il bisogno di vedere i disastri provocati da quel diretto destro. Gli sembrava una cosa inutile. Sapeva già che quella notte, l’avventura si chiudeva lì. Non era necessario sottolineare quello che aveva fatto. Essenziali anche nelle risposte alle difficoltà. Jannik ha affrontato Medvedev nei quarti. Il russo si era guadagnato una palla break. Sbagliava però una volée a campo aperto. Ciao Daniil, il treno è passato e tu non l’hai preso. Non ci sarà un’altra occasione, Jannik non perdona. Testa, determinazione, talento.