Sinner, una lezione di cui fare tesoro

Leggi il commento sul caso doping del tennista azzurro
Massimiliano Gallo
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Le domande sul caso Sinner sono tre. La prima, per certi versi la più importante, è: Jannik ha assunto il Clostebol per migliorare le sue prestazioni? La risposta è no. Decisamente no. Le tracce sono minime. E non c’è alcun dubbio. È risultato due volte positivo all’antidoping a marzo a Indian Wells, ma non è un dopato in senso tecnico. Alla Ben Johnson, per capirci. La sua assoluzione è sacrosanta. 

Restano ancora due domande. La seconda è: Sinner ha goduto di un trattamento privilegiato nel poter dimostrare la propria innocenza, nell’evitare la sospensione e nell’ottenere il riserbo sulla sua positività? È la domanda che ha creato le fazioni. I pro Sinner e i contro Sinner. In Italia è stato giustamente sbandierato il caso del doppista (fino a ieri quasi sconosciuto) Marco Bertolotti. Un signor nessuno del tennis cui è stata ugualmente riconosciuta l’involontarietà per l’assunzione della medesima sostanza di Sinner. Quindi nessuna diseguaglianza. È vero. Ma è vero anche che in altri casi l’assurda giurisprudenza tennistica ha assunto toni kafkiani e ha rovinato carriere. Una vicenda controversa ce l’abbiamo in casa ed è quella di Sara Errani che la squalifica se l’è beccata. C’è il caso clamoroso di Simona Halep. C’è quello citato dal “Telegraph”, l’inglese Tara Moore, la cui innocenza è stata accertata dopo diciannove mesi di squalifica e una carriera compromessa. 
Il “Telegraph” ha picchiato duro sulla perdita di credibilità del tennis e sul trattamento privilegiato riservato a Sinner che ha potuto permettersi avvocati che altri tennisti non possono neanche sognare. Accuse dure sono arrivate anche da alcuni tennisti - Kyrgios su tutti, poi Shapovalov e Pouille - ma da loro ci saremmo aspettati altro. Sinner poteva e doveva diventare il nuovo parametro per una giustizia ragionevole e non assurda. Deve pagare il tennista che bara. Non chi è vittima di un errore. Precedenti errori giudiziari non sono un buon motivo per crearne un altro. Questo ci saremmo aspettati da loro. Invece hanno solo sparato a zero su Jannik. Evidenziando scarsa visione e tanta invidia. 
E infine la terza domanda, quella che ci sta più a cuore: può lo staff del tennista numero uno al mondo rendersi protagonista di un comportamento tanto superficiale? Ripetiamo: noi siamo realmente e pienamente convinti dell’errore e della assoluta estraneità di Sinner. Ma a livello professionistico, nel tennis e non solo, paghi anche per la superficialità altrui. Che poi è la tua superficialità, perché sei tu che hai scelto determinate persone per il tuo staff. Onestamente, per quanto vera, la storia suona ugualmente grottesca. Un fisioterapista che usa una pomata con una sostanza dopante (è scritta a caratteri cubitali sulla confezione), non si lava le mani né usa i guanti e poi massaggia il numero uno del mondo, non il signor Rossi, e la sostanza entra a contatto con una lacerazione di Sinner. È questo bagaglio di approssimazione e faciloneria ad averci lasciato sbigottiti. Mai ce lo saremmo aspettato da un giovin signore che all’apparenza fino all’altro giorno sembrava l’incarnazione del professionismo. Eloquente il commento di Binaghi presidente della Federtennis: «Ci è andata molto bene». 
La carriera di Sinner proseguirà. L’invidia finirà solo col rafforzarlo. La macchia progressivamente svanirà. Ma Jannik faccia tesoro della lezione. A questi livelli una volta riesci a salvarti dall’approssimazione. Due volte no. 


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