Rino che aveva sempre ragione

Gli piacevano i complimenti, ma solo quelli sinceri. Un fuoriclasse  dello sport, enciclopedia vivente
Rino che aveva sempre ragione© LAPRESSE
Dario Torromeo
6 min

Sempre fedele a te stesso. In telecronaca e nel privato. Molti celebranti di oggi, all’epoca non gradivano. Non ottenevi l’unanimità dei consensi. E questo ti inorgogliva, anche se i complimenti ti piacevano. Ma solo quelli sinceri. Mi raccontavi che tra gli elogi in cima alla lista c’era quello di un signore che ti aveva fatto una confidenza. 

«Sono un suo affezionato lettore. Mi piacciono i suoi articoli. Anche se, onestamente, preferisco quelli di Tom Salvatori». Avevi sorriso e ringraziato

Tom Salvatori era lo pseudonimo che usavi quando scrivevi per Il Tempo. 

Abbiamo fatto il giro del mondo assieme, seguivamo gli stessi sport. Tennis e boxe. Tu infiniti livelli sopra il mio, in quanto a popolarità. Ti hanno spesso descritto come un uomo privo di modestia. Vero, ma almeno lo ammettevi candidamente, anche se per farlo preferivi usare l’ironia. «Modesto? Non ho alcun motivo per esserlo». 

Avevi una dote rara, raramente negavi un aiuto. Il 19 novembre 1986, ricordo esattamente la data perché tre giorni dopo Tyson sarebbe diventato il più giovane campione del mondo dei pesi massimi, Claudio Colombo del Corriere della Sera ed io avevamo fissato un appuntamento con Bill Cayton, co-manager di Iron Mike, per un’intervista. Con l’inglese ce la cavavamo, ma volevamo essere sicuri di non perdere neppure una sfumatura di quel colloquio. Ti avevamo chiesto di accompagnarci. «Dove e a che ora?» avevi risposto. Avevamo bussato alla porta della suite, Cayton aveva aperto. «Rino, amico mio!». Poi, ti aveva abbracciato. A fine chiacchierata, ci avevi fatto una domanda. «Posso usare qualcosa di questa intervista?». 

Una lezione di etica professionale. Non sempre abbiamo avuto lo stesso punto di vista. Ricordo un dibattito su Canale 5 dopo Hagler vs Leonard a Las Vegas. In trasmissione, tu, Nino Benvenuti ed io. Coordinava Guglielmo Zucconi. Pareri diversi, rispetto reciproco, anche se ognuno di noi era rimasto con le convinzioni di partenza. Del resto mi hai ripetuto cento volte che il tuo personalissimo cartellino non poteva essere messo in discussione. «Gli arbitri hanno due possibilità, essere d’accordo con me o sbagliare». Eravamo assieme anche ai Giochi di Seul ’88. Stavamo mangiando qualcosa in un buco di ristorante vicino all’albergo. Non ti allontanavi mai molto dal luogo in cui alloggiavi. «Non esiste un solo ristorante al mondo per cui valga la pena di fare un viaggio in taxi». 

Eri un fuoriclasse se la materia era lo sport. Lo avevi praticato, ti appassionava, ne eri innamorato. O il giornalismo. I numeri erano il tuo forte, la memoria la tua arma, la competenza l’affondo vincente. Ma non ti ho mai perdonato il tuo disinteresse assoluto per la cucina. Non dico ristoranti stellati, ma buon cibo e vino di qualità non hanno mai fatto male a nessuno. Parlavamo del torneo di boxe. «In questa Olimpiade i pugili sono dilettanti, ma i giudici sono ladri professionisti». 

Sintesi apprezzabile. Amavi lo sport, il giornalismo, amavi te stesso. Non è un peccato mortale. Su un punto eravamo sicuramente d’accordo. «Non mi piacciono i film in cui si vede il pugilato finto. Il primo Rocky sarebbe stato perfetto se fosse finito al primo colpo di gong». Urlavi in tv solo quando era strettamente necessario. 

«Una delle più belle riprese a cui mi sia mai stato modo di assistere!» (la sesta di Hagler vs Mugabi, fantastica telecronaca). 

Ti conoscevo abbastanza bene per non dirti «Hai ragione», sapevo che avresti replicato «Mi capita spesso». Mi piaceva la tua competenza nel pugilato. Il ritmo giusto, la capacità di analisi veloce, il linguaggio appropriato. E poi avevi una dote rara, dicevi quello che pensavi. Se un match era brutto, non ti nascondevi dietro un mare di parole. Dicevi semplicemente che era un match brutto. Un atto di coraggio in un mondo in cui due pugilatori modesti vengono etichettati come fuoriclasse. Così, tanto per stuzzicarti, una volta ti ho chiesto se qualcuno si fosse mai lamentato. Mi hai risposto alla tua maniera. «Non siamo qui per vendere tappeti». 

Avevi una qualità difficile da trovare in giro, l’autorevolezza. Del tuo giudizio tecnico ci si poteva fidare. Rino Tommasi, il tuo nome era il marchio di qualità sullo spettacolo. Stavo scrivendo uno dei miei libri quando ho avuto un dubbio su un particolare della storia. La memoria e i nomi non sono mai stati il mio forte. Ti ho chiamato al telefono e mi hai elencato record, età, stile pugilistico e avversari importanti del tipo in questione.

Un’enciclopedia vivente, senza sentire il bisogno di consultare un’enciclopedia

Queste sono alcune delle cose che ricordo di te, delle nostre chiacchiere in trasferta. 

Chiudo con il commento di un grande. «Stimo Rino Tommasi, uno dei più culti giornalisti sportivi in assoluto. Un cervello essenzialmente matematico, però capace di digressioni etico-fantastiche quali consente uno sport come il pugilato. Io lo chiamo professore senza la minima ombra di esagerazione scherzosa». 

Parola di Gianni Brera. 


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