MILANO - Roland Garros no (o quasi). Wimbledon sì (e con grandi ambizioni). Matteo Berrettini non è ancora pronto e l’operazione alla mano destra lo costringerà a saltare Montecarlo e l’amato torneo di Roma, ma all’atleta del team Red Bull gli stimoli non mancano. A Wimbledon sente che stavolta potrebbe essere l’anno giusto per un trionfo.
Berrettini, come sta?
«Ora bene, ma non ho ancora ripreso a giocare. Ho sentito per la prima volta il dolore al dito nei giorni precedenti all’inizio di Indian Wells, quando facevo il rovescio a due mani: avvertivo come uno scatto del tendine che usciva dal binario. I primi accertamenti non avevano dato un esito preoccupante ed ero sceso in campo con gli antidolorifici. Il fastidio, però, aumentava e per questo mi sono ritirato a Miami. Capita la reale entità del problema, mi sono operato».
Non era un infortunio banale.
«Era una lesione di una piccola parte della mano che fa sì che il tendine del mignolo stia al suo posto. Nel mio caso usciva sempre dalla sede naturale e si lussava. Adesso ho ripreso a dare la mano, a muoverla e... a salutare, ma ancora niente tennis. Spero di rientrare a breve perché sta andando tutto come da programma».
Il problema agli addominali invece fa parte del passato o dovrà adattare la sua preparazione e la sua stagione per non ricadere in un simile infortunio?
«Abbiamo fatto degli studi perché è giusto approfondire quando nel tempo ci sono infortuni che ricorrono come successo a me agli addominali. Lo strappo dello scorso anno è stato dovuto alla quarantena perché non ci siamo allenati bene e abbiamo ripreso con partite 3 set su 5. Da allora si è formata una cicatrice nella parte sinistra dell’addome che, quando sforzo al massimo, si fa sentire. Proviamo a lavorare sul mio corpo per renderlo più flessibile e fluido, ma sappiamo che lo sport ad alti livello porta a infortuni che non si possono controllare».
Sarà in campo al Roland Garros?
«In questo momento più no che sì. Quando toccherò la prima palla, saprò quanto mi serve per tornare a un livello di forma accettabile. Nello sport e nella vita “mai dire mai”, ma non mi prenderò dei rischi e non deciderò con fretta. Se non mi sentirò pronto, salterò la terra e andrò dritto sull’erba. Questo stop forzato mi permetterà di arrivare più fresco fino a fine novembre».
Niente Roma: è dispiaciuto?
«Gli Internazionali d’Italia sono il torneo che sento di più dal punto di vista emotivo perché da bambino ero lì a vedere il torneo e sognavo di essere competitivo a quei livelli. Fa male saltarlo. Purtroppo a causa del Covid e della capienza ridotta nelle ultime due edizioni non me lo sono goduto. Vedrete che nel 2023 avrò le energie mentali per presentarmi al Foro Italico per far bene».
I tifosi italiani in sua assenza possono sperare in un’impresa di un connazionale?
«Sonego e Sinner. Spero che un italiano arrivi in fondo e vinca».
Torniamo a lei e all’erba... di Wimbledon, lasciata lo scorso 11 luglio con la sconfitta in finale contro Djokovic. Cosa le è mancato per vincere?
«Quando arrivi così vicino a un successo nello Slam, è questione di dettagli e Novak era alla trentesima finale in uno Slam, io alla prima. Lui inoltre per caratteristiche di gioco mi dà parecchio fastidio».
Ci riproverà a fine giugno?
«Un anno fa ho preso... il palo. Speriamo stavolta di far gol. Scherzi a parte, sarò meno pronto perché 12 mesi fa ero arrivato lì con tanti match sulle spalle, stavolta no. Ora però ho più esperienza e sono più maturo. Gli stop e le sconfitte mi hanno insegnato tanto».
Cosa in particolare?
«Meglio vincere, ma le sconfitte sono più importanti. Dopo un’assenza per infortunio o un ko ho sempre sentito una grande spinta dentro di me, un motivo di rivalsa. Le sconfitte se sono poche e sono prese bene, posso aiutare».
Bisogna avere la testa giusta perché accada davvero.
«Credo sia una mia caratteristica fin da bambino: allora come oggi usavo ogni energia mentale per arrivare al massimo risultato. Vinco i punti con i miei colpi, ma se non entro in campo con il giusto approccio, anche il dritto e il servizio sono meno efficaci. Per essere un giocatore di élite i colpi contano fino a un certo punto. Se qualcosa non ti scatta dentro, è dura».
Lei ha un mental coach?
«Fin dai 17 anni, ma non c’è un esercizio specifico che faccio con lui. Si tratta di un percorso che porta a conoscerti nel tempo, ti fa digerire la sconfitta in maniera corretta e ti toglie un po’ di pressione».
Dopo Wimbledon e la partecipazione di Sanremo, tutti la conoscono. E’ difficile da gestire la notorietà?
«Non me la sarei mai aspettata, ma fa piacere quando i tifosi mi dicono di essersi avvicinati o riavvicinati al tennis grazie a me. La notorietà la gestisco con l’educazione che mi hanno dato i miei genitori: se uno mi chiede una foto, non riesco a dire di no. Le mascherine finora mi hanno aiutato a mimetizzarmi. Mi dispiace solo che a volte, quando voglio dedicare tempo ai miei migliori amici, non sempre ci riesco perché ci sono tante persone intorno».
Si parla da due-tre anni del ricambio generazionale, dei Fab 3 in declino e invece vincono ancora.
«A stare al top devi abituarti. Federer, Nadal e Djokovic hanno sempre saputo gestire la pressione facendo risultati incredibili, ma per i comuni mortali gli alti e i bassi sono fisiologici».
Bello vivere questo momento in cui, con i tre grandi in flessione, i giovani si stanno ritagliando uno spazio importante?
«E’ dieci anni che parlano di una loro flessione e invece vincono sempre. Giocare nella loro era per me è fantastico: tutti e tre li ho vissuti in tv da spettatore e poi in campo. Già questo mi ha reso orgoglioso. Quando smetteranno, però, niente sarà facile: c’è una generazione di atleti più giovani di me, da Sinner e Alcaraz, che sono super competitivi».
Se dovesse scegliere tra vincere Slam o la Coppa Davis, cosa vorrebbe?
«In questo momento uno Slam, ma la Davis viene subito dopo».
L’Italia non la solleva dal 1976. La vostra è la generazione giusta per riportarla... a casa?
«Il momento è arrivato perché la squadra è molto forte. Dal 1976 sono cambiate tante cose, a partire dalle regole. Il doppio è ancora più importante del passato e noi non eccelliamo in questa specialità, ma la Davis l’ha vinta la Russia che non ha certo il doppio più forte del mondo. Io credo nella squadra e nei ragazzi. Stiamo costruendo un progetto a medio lungo termine e possiamo arrivare in fondo».
Questo periodo di stop le ha permesso di stare a Roma. Non è che ha pensato al fatto che con il tennis vive in una bolla e che le manca una vita vera?
«Fino a un certo punto della mia carriera non ho mai sentito la mancanza della vita di tutti i giorni perché ero focalizzato a far bene nel tennis. Adesso ogni tanto una sera di baldoria o un weekend con gli amici me lo concedo e non muore nessuno. Anzi, mi ricarica».
Considera il tennis un lavoro?
«No. A volte preferirei evitare un meeting con un avvocato, una sessione di fisioterapia o un allenamento pesante, ma nella mia vita sto facendo quello che sogno. Mi dà solo fastidio che devo stare lontano dagli affetti per 10-11 mesi l’anno. Quando mi chiama la nonna piangendo perché non mi vede, mi crea un buco dentro».
Tutti le riconoscono di essere un bel ragazzo. Lei quando ha capito di essere bello?
«Il 12 aprile 1996, quando sono nato. Mia mamma ha subito detto: “Ammazza quanto è bello” (ride; ndr). Idem mia nonna. Io però non mi guardo allo specchio e mi ripeto: “Ammazza come sono bello”. La bellezza per giocare a tennis poi non aiuta».
Cosa chiede alla seconda parte del 2022?
« Di essere sano e spingere forte. Non ho mai giocato bene i Master 1000 in Canada, neppure a Cincinnati. Sarebbe stupendo fare un “giro” americano bello e poi gli US Open. Punto a qualificarmi per le Atp Finals, ma l’infortunio mi ha fatto perdere tanti punti. Ho tempo per recuperare e ci proverò».