L'importante è vincere

Leggi il commento del Direttore del Corriere dello Sport - Stadio
L'importante è vincere© FIORENZO GALBIATI
Ivan Zazzaroni
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Quant’è bello e importante vincere e poter festeggiare la vittoria. Questo - vi avviso - è un pezzo dal contenuto solo apparentemente diseducativo, ad ogni modo per attivare il blocco per i bambini è necessario accedere alle impostazioni di Google Play Store oppure rivolgersi a Salvatore Aranzulla. Vincere è bellissimo e importante, dicevo. Nello sport professionistico - e sottolineo professionistico, che è centrale ai Giochi - resta l’obiettivo principale. Chi vince emoziona, chi vince viene ricordato, chi vince dà un senso compiuto al lavoro suo e dello staff, ai tanti sacrifici, alle rinunce, agli investimenti che vengono fatti per consentirgli di risultare competitivo ai massimi livelli, e alle attenzioni dei media, all’amore della gente che partecipa per veder vincere. Fuori tempo e contesto è invece la frase “l’importante non è vincere, ma partecipare” che non ha più nemmeno un padre certo. Sembra infatti che non appartenga a Pierre de Coubertin, ma che altro non sia che una catena di rimandi e travisamenti partita da Londra, il 24 luglio del 1908, al termine di un banchetto di commiato al quale il Barone partecipò: nel suo discorso avrebbe semplicemente ripreso una frase pronunciata dal vescovo Ethelbert Talbot, della diocesi di Bethlehem, Central Pennsylvania.

A ben pensarci, o il Barone o il vescovo, o chissà chi, avrebbe anticipato d’oltre un secolo la prima affermazione del politicamente corretto trascinata nel tempo dagli ipocriti, respinta fin d’allora dagli sportivi predecessori di Giampiero Boniperti. È bellissimo vincere quanto lo è aver vinto 10 ori, undici argenti e 9 bronzi quando mancano ancora tre giorni alla fine dei Giochi di Parigi nei quali siamo in grado di aggiungere altre medaglie al bilancio della nostra spedizione. Che forse non sarà giudicata trionfale, ma che considero entusiasmante, nonostante siano mancati alcuni tra i protagonisti annunciati. Campioni della scherma, di nuoto e pallanuoto, dell’atletica, del judo. Molti dei quali sconfitti soltanto da giudici e arbitri che hanno confermato l’incidenza della discrezionalità e della sudditanza psicologica su risultati e destini.

Professionismo significa “esercizio dell’attività sportiva con carattere di esclusività e continuità, su una base di impegni contratti e dietro retribuzione regolare e costante”; retribuzione la cui entità viene determinata dal mercato o da interessi di natura promiscua. La penso esattamente come Paul “Bear” Bryant, uno dei migliori allenatori di College football di tutti i tempi, che sentenziò: «Vincere non è tutto, ma di sicuro batte qualsiasi cosa si classifichi al secondo posto». Il divertimento dovrebbe invece appartenere ai più giovani, ai bambini e ai dilettanti, quelli veri. Un abominio l’inversione dei ruoli, degli obiettivi e di talune pratiche: ragazzi e dilettanti condannati alla vittoria e professionisti, alcuni dei quali strapagati, rallentati o distratti dai lauti guadagni.


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