Velasco: “Italia favorita alle Olimpiadi? Due i nemici da combattere”

Il ct della Nazionale femminile di pallavolo pronto alla sfida più importante: “Pochi giovani? Siamo mentalmente vecchi”. Poi parla di Egonu e Antropova
Velasco: “Italia favorita alle Olimpiadi? Due i nemici da combattere”© GALBIATI FIORENZO
Paolo De Laurentiis
8 min

72 anni compiuti a febbraio, mille vite vissute in giro per il mondo tra pallavolo in tutte le salse (uomini, donne, nazionali, club) e calcio anche se a piccole dosi. Julio Velasco torna alle Olimpiadi, questa volta da ct della Nazionale femmimile, con l’entusiasmo del ragazzino e la saggezza di chi ormai le ha viste (quasi) tutte. Cita Clint EastwoodNon voglio far entrare il “vecchio”»), smonta i luoghi comuni sui giovani («Non sono una categoria, siamo un Paese mentalmente vecchio»), odia le generalizzazioni («A volte le cose accadono e basta»), sa qual è il suo obiettivo da ct: formare ragazze autonome, autorevoli, disciplinate ma non troppo. «Perché in campo alla fine sei solo».

Che Olimpiade ci aspetta? 
«Molto equilibrata, penso che la fase storica dei grandi cicli sia finita. Per la pallavolo è un bene, vuol dire che è cresciuta». 

Il momento chiave? 
«I quarti di finale. Una partita secca dove, dopo aver vinto il tuo girone, puoi incontrare una delle terze che è comunque forte e magari non ha niente da perdere mentre tu ti senti obbligato a vincere». 

L’Italia non ha mai giocato una semifinale olimpica ma viene dalla vittoria nella Nations League. Siamo favoriti? 
«Questa è la sindrome del popolo scelto da Dio. Non riguarda solo noi, l’ho trovata in tutti i Paesi in cui ho allenato, forse perché sono tutti latini e con le stesse caratteristiche. Vinci qualcosa e automaticamente diventi il prescelto. Questo è un problema, l’obbligo di vincere diventa un peso. Una squadra che non ha mai vinto una medaglia olimpica come può essere favorita? Però non siamo neanche la cenerentola». 

E allora chi siamo? 
«Una delle squadre più forti, questo possiamo dirlo». 

Perché un movimento di alto livello come la pallavolo italiana, sia al maschile che al femminile, non ha mai vinto l’oro olimpico? 
«Perché l’Olimpiade è un torneo né più né meno come gli altri e la partita secca puoi perderla senza che ci sia chissà quale lacuna dietro. Anche questa è una nostra caratteristica, quasi deformazione, culturale: dover dare sempre una spiegazione a tutto, parlare di massimi sistemi. A volte è semplice casualità. Perché Djokovic ha vinto solo un bronzo alle Olimpiadi? Nessuno lo sa, ma è successo». 

Si vince giocando sempre bene? 
«Può capitare di giocare peggio dell’avversario. Nel nostro sport, come nel tennis, puoi perdere un set ma vincere la partita. La chiave è un’altra: farsi trovare pronti, saper gestire certi momenti. Soffrire ma non subire, senza farti condizionare, tenendo la testa sempre dentro la partita». 

La squadra è convinta di questo? 
«In Nations League è andato tutto bene, ma quando si arriva nella manifestazione più importante ci sono due nemici da combattere: l’ansia e il dubbio. Un giocatore non può dubitare mai. Le donne, poi, sono molto diverse da noi: l’uomo si butta e vede cosa succede. Le donne no: a volte vogliono essere troppo sicure prima di agire, odiano sbagliare, si perdonano poco. E questo può bloccarti. Quindi a Parigi senza ansia e senza dubbi. Io mi confronto con l’altro, sfruttando quello che ho in quel momento. Vediamo se è sufficiente, ma non devo pensare sempre che mi manca qualcosa». 

Lo staff tecnico può aiutare? 
«Certo, il primo messaggio dobbiamo mandarlo noi. Se chiediamo serenità ma poi facciamo allenamenti infiniti provando e riprovando le stesse cose, magari allungando la seduta di mezz’ora, stiamo comunicando ansia». 

Cosa le hanno chiesto le ragazze quando è cominciata la sua avventura da ct? 
«Ma no, gli atleti non chiedono certe cose. Semmai chiedono i giorni liberi, ma con me hanno vita facile. Non penso che i ritiri lunghissimi siano produttivi: un paio di giorni alla settimana è giusto lasciare la libertà di tornare alle proprie famiglie e ai propri affetti». 

E Velasco cosa ha chiesto alle ragazze? 
«Ovviamente alcune cose tecniche e tattiche. Ma soprattutto voglio ragazze autonome e autorevoli, non ubbidienti. Le donne sono molto più disciplinate di noi, ma la disciplina non è sufficiente. In campo i giocatori sono da soli, non c’è allenatore che tenga, possiamo urlare quanto vogliamo. Serve personalità, autonomia. La tecnica è lo strumento, poi ci vuole altro». 

Se una squadra si costruisce stabilendo i ruoli, qual è il ruolo di Egonu e quale quello di Antropova? 

«Egonu è l’opposta titolare. Antropova possiamo usarla nelle rotazioni con la sua battuta e anche come alternativa a Paola». 

A Parigi andiamo con pallavolo e pallanuoto, come spiega la crisi del calcio e del basket? Mancano i giovani talenti? 
«Dire che non ci sono ragazzi in gamba è un errore. Noi siamo un Paese mentalmente vecchio, parliamo della giovinezza come fosse un difetto. “È bravo, però è giovane”, come se fossero una categoria, e tendiamo a considerare il successo di un giovane come un’eccezione. Ma i giovani hanno bisogno della fiducia di chi comanda». 

Tornando a calcio e basket? 
«Sono realtà diverse rispetto alla pallavolo. Il loro problema è la presenza degli stranieri. Da noi il rapporto è quattro stranieri e tre italiani, in proporzione sarebbe come avere cinque italiani in campo in tutte le squadre di serie A. Sarebbe un’altra musica: si sviluppa il gioco, si coltiva il talento a partire dagli allenamenti. C’è un abisso tra chi si allena sapendo di giocare e chi lo fa sapendo di non essere mai coinvolto. La crescita comincia lì. E poi nella pallavolo abbiamo molto tempo per lavorare con la Nazionale, calcio e basket no. Gli allenatori non sono maghi, hanno bisogno di tempo». 

Una soluzione come il Club Italia sarebbe applicabile a quelle realtà? 
«Non credo, ci sono troppe differenze. Ricordo, tempo fa, di aver incontrato Marco Tardelli quando allenava l’Under 21. Gli suggerii di portare i ragazzi a fare qualche tournée in giro per il mondo, per fare esperienza. Ma i club non te li danno, anche se non giocano. Poi non sto criticando, la mia è solo una constatazione: magari ci sono regole che impediscono di fare diversamente. Mi metto nei loro panni e capisco che non si può fare altro». 

La soluzione? 
«Ai ragazzi dico di andare a giocare fuori, anche in squadre di secondo piano, ma giocare. Personalmente, non convoco ragazze che non giocano, a meno che non sia costretto ovviamente. È l’esperienza sul campo che ti fa crescere e migliorare, ti permette di gestire le situazioni». 

Perché tornare a più di 70 anni, ripartendo da Busto prim’ancora che dalla Nazionale? 
«Ah, ma lì c’è stata anche una parte di vanità da parte mia. Nel ’97, quando ho considerato chiusa la mia esperienza con la Nazionale maschile (“Lascio perché ho dato tutto e tutti identificano la Nazionale con me, un errore madornale”; ndr) ho cominciato a lavorare con il settore femminile. Poi è arrivata la chiamata del calcio (prima la Lazio, poi l’Inter; ndr) e da calciofilo non ho saputo resistere. L’esperienza con le donne era rimasta in sospeso». 

Le piace? 
«Pensavo che l’opportunità della Nazionale arrivasse dopo Parigi in realtà, invece c’è stata un’accelerazione improvvisa solo pochi mesi fa, ma è tutto bellissimo. Così come mi è piaciuto lavorare con i giovani, sono pronto a rifarlo sempre che mi vogliano». 

Senza fermarsi mai. 
«Come ha detto Clint Eastwood, che a più di 90 anni continua a girare film, non voglio far entrare il “vecchio”»  

È in Italia dal 1983, cosa ha dato il nostro Paese a Velasco e cosa ha dato Velasco a noi? 
«Ah, ma questa diventa un’altra intervista, riparliamone tra una ventina d’anni quando forse smetterò di allenare».


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