Hanno appena presentato a Venezia un film sul Drake - non a caso, in coincidenza con il Gran Premio di Monza - e l’ottuagenario in servizio permanente effettivo viene bombardato di quesiti. Innanzitutto, com’era davvero, Ferrari? Eppoi, cosa direbbe oggi della sua Rossa in ritardo? E quale Monza amo, io, ricordare? Beh, il film non l’ho visto, come i curiosi che m’interpellano, dunque quel che ne so l’ho letto. E posso giusto esprimere qualche personale impressione. Il film parla del Ferrari 1957, un’annata particolare, diciamo maledetta, preceduta dalla scomparsa dell’amatissimo figlio Dino e segnata dalla morte di Alfonso Deportago e del suo copilota Nelson durante la Mille Miglia ricordata come la Tragedia di Guidizzolo di Mantova: l’esplosione di uno pneumatico della sua Ferrari 335 S con cui stava gareggiando lo fece sbandare sulla folla, nove furono i morti, cinque erano bambini. Quella fu l’ultima Mille Miglia e il giornale dei Gesuiti - “Civiltà Cattolica” - parlò di “Saturno che divora i suoi figli”. Il Drake aveva duramente sofferto la tragedia di Guidizzolo e la sua vita privata ne aveva risentito - anche per traversie aziendali - fino alla crisi famigliare, la separazione dalla moglie Laura - mamma di Dino - e la rivelazione del suo vero amore per Lina che gli aveva dato già nel ‘45 il figlio Piero. Se scrivo questi dettagli è perché il Vecchio non ne voleva parlare, negli anni in cui l’ho frequentato assiduamente l’argomento Dino venne fuori una sola volta, quando pubblicai una sua biografia nella quale l’autore aveva scritto che in una visita a San Marino con Dino già malato Ferrari aveva pensato di gettarsi nel vuoto dalla torre più alta abbracciato al figlio. Mi aggredì: «Non vi bastano gli incontri che facciamo, le tante cose che vi dico, adesso osate rubarmi anche i miei pensieri!». Avevamo già avuto un durissimo scontro quando nel gennaio del ‘71, morto il pilota ferrarista Ignazio Giunti a Buenos Aires, ebbi l’infelice idea di citare quel gesuitico Saturno e mi maltrattò fino a quando, impietosito, mi donò la sua amicizia. Ecco, gli hanno dedicato un film che da una vita intensa, spericolata e gloriosa appare solo quella stagione di rabbia e dolori.
Il 'Viveur' Clay Regazzoni
In quel tempo conobbi il più gagliardo, avventuroso e simpatico pilota della Rossa, Clay Regazzoni, che aveva vinto il GP tricolore già nel ‘70 con la mitica 312B - sostituendo Giunti - e si era ripetuto con la 312 T nel ‘75, gara alla quale fui presente. Era il 7 settembre del 1975, batté Emerson Fittipaldi e il compagno di squadra Niki Lauda che con il terzo posto diventò Campione del Mondo. Più tardi diventammo amici, partecipammo insieme a dibattiti televisivi e nonostante il grave incidente che l’aveva condannato a vivere su una carrozzella, non perse mai il suo humour, l’ironia bruciante, la voglia di vivere. In “Piloti che gente” - il libro più completo e appassionante scritto da Ferrari con Franco Gozzi - ecco il ritratto di Clay: «Viveur, danseur, calciatore, tennista e, a tempo perso, pilota: così ho definito Clay Regazzoni, il brillante, intramontabile Clay, ospite d’onore ideale per le più disparate manifestazioni alla moda, grande risorsa dei rotocalchi femminili. Lo contattai fin dal 1969. L’anno dopo vinse un memorabile Gran Premio d’Italia a Monza. Poi si affinò, come stile e temperamento, che era fra i più audaci, fino a diventare un ottimo professionista. Gli avversari lo hanno sempre rispettato.» Io gli ho semplicemente voluto bene. Quando la Ferrari vinceva…