Fuori sembra Apocalypse now, con gli elicotteri che coprono il cielo di Atene come cavallette esagerate, e il vortice di tutte quelle pale alza mucchi di terra arsa, caldo e sudore. Spalanco la porta della redazione, fi nalmente al sicuro. Ancora poche ore e l’Olimpiade sarà chiusa, il tripode sarà spento e la nostalgia immediatamente accesa, e ricominceremo a contare alla rovescia per i prossimi quattro anni. Dario Torromeo non mi lascia neanche posare il computer sulla scrivania, «vola al Panathinaiko, sta arrivando la maratona, devi parlare con Baldini appena taglia il traguardo, Fava non può muoversi dalla tribuna». Enrico Maida mi ha sempre chiamato Greta, perché dice che la mia prima risposta è no, pare che la Garbo facesse così. Questa volta faccio un’eccezione, capisco il momento e dunque non dico di no, ma perdo comunque tempo prezioso per spiegare che non è una grande idea. «La città è bloccata, non si può andare da uno stadio all’altro, le misure di sicurezza sono feroci, alla cerimonia di chiusura c’è già tutto il mondo, capi di stato, politici, rockstar, divi di Hollywood. I soldati hanno i mitra spianati, li ho appena visti». Dario non fa una piega, non devo averlo impressionato. «Voglio un pezzo con Baldini, devi parlare con lui. Se fossi in te andrei al Panathinaiko senza perdere altro tempo».
Mentre corro con il computer a tracolla, nel caldo cattivo di una fine giornata di fine agosto alla fine dei Giochi, a guidarmi è il pensiero di Stefano Baldini. Immagino la sua corsa incontro alla storia, è partito da Maratona, abbiamo parlato tanto nei giorni scorsi dell’emozione di correre la maratona quella vera. Da Maratona ad Atene, proprio come Fidippide che abbiamo studiato al liceo. Fidippide che riuscì ad annunciare «abbiamo vinto» prima di accasciarsi senza più vita. Immagino Baldini, che negli ultimi quattro anni non ha passato un giorno senza pensare a questo, e intanto corro. Calcolo i tempi e mi dico che avrà già cominciato il tratto in discesa, a quest’ora sarà già alle porte di Atene. I suoi occhi erano pieni di stelle quando parlava di questa gara, e adesso non posso vederlo ma so che sta correndo verso il traguardo più importante della sua vita. Io in fondo devo soltanto arrivare al vecchio stadio. Qui è bloccato, mi fanno segno di tornare indietro, sopra ci sono gli elicotteri, sulla strada è pieno di militari in assetto da guerra. Mostro l’accredito, mi ridono in faccia. Sciò. Penso alla prima volta che ho visto Baldini, senza riuscire a rintracciarlo in un mucchio di giornate indistinguibili, quando lavoravo alla Fidal regionale. Immaginavo di fare la giornalista e avevo accettato un posto all’uffi cio stampa, nel cuore di Bologna, in via Nazario Sauro. Ufficio stampa si fa per dire: nei periodi di tesseramento si dava una mano con le iscrizioni, e nei fi ne settimana si andava ai meeting sui campetti della regione. Si portavano gli attrezzi, i cartellini, qualche volta anche gli atleti. Erano ragazzi poco più giovani di me, ma io sapevo motivarli. Li intervistavo per il nostro giornalino, «Atletica Sprint», per molti era la prima intervista della vita, per qualcuno magari l’ultima. C’erano due sorelle che venivano dalla Romagna, Nancy e Desy Masironi. C’era Andrea Amici, velocista fi glio e nipote di due buoni ciclisti, Adriano e Aladino. E c’era un ragazzino reggiano magro magro con tanti fratelli che faceva le campestri, Stefano Baldini. Io parlavo, parlavo, mi facevo raccontare e raccontavo, ci scambiavamo i sogni. Poi fi nivo dicendo sempre la stessa cosa. «Devi mettercela tutta, quando sei stanco pensa che un giorno vincerai le Olimpiadi e allenati ancora un po’». Loro ridevano e mi davano ragione, come si fa con i matti.
Ho trovato un varco nella rete, mi abbasso e mi tiro dietro il computer con uno strattone quando vado a sbattere. Alzando lo sguardo nella luce del tramonto vedo nell’ordine: un paio di stivali, un mitra e una faccia incazzata. Prima che il soldato decida di arrestarmi, gli mostro l’accredito, gli dico che devo vedere la maratona, che c’è un italiano che sta arrivando, per convincerlo aggiungo due parole di greco ovviamente antico imparate a scuola. Prima che possa dirgli anche «una faccia una razza», lui incredibilmente lo capisce da solo. I miei colori e l’abbronzatura olimpica fanno il miracolo. Mi fa segno di andargli dietro, ma senza tirare giù il mitra. Stiamo andando verso lo stadio, e questo mi basta. Passiamo il primo blocco, mentre comincia a farsi buio. Calcolo il tempo, mancano dieci minuti alla fi ne della maratona. Ripenso a quel ragazzino pieno di fratelli che veniva al campo la domenica e correva. Anche adesso starà correndo. «Devi mettercela tutta, quando sei stanco pensa che un giorno vincerai le Olimpiadi». Il vecchio Panathinaiko bolle. Passione, e caldo. Siamo sotto le tribune, il mio soldato mi ha ac-compagnato fi no a un varco e soltanto adesso mi ricordo che non ho un biglietto, l’accredito non basta, non riuscirò mai ad entrare nello stadio. Così mi gioco tutto. Chiedo al mio soldato di venire con me a bordo pista, gli dico che la maratona è praticamente fi nita, devo vedere una cosa poi basta, promesso. Dal monitor scorgo un corridore con la canottiera bianca che gli balla sulle spalle, gli occhiali tirati sulla fronte, una smorfi a di fatica e di dolore. «Devi mettercela tutta, quando sei stanco pensa che un giorno vincerai le Olimpiadi». E’ Baldini, è in testa, lo indico urlando al mio soldato, gli dico che sono italiana, che lui è italiano, si gira a guardare e lo vede biondo, troppo biondo, poi inquadrano una bandiera bianca rossa e verde e anche lui capisce che sto dicendo la verità. All’improvviso abbassa il mitra, ci ripensa, mi fa strada, entriamo nel buio del Panathinaiko illuminato da mille flash. La maratona sta entrando nello stadio, il corridore bianco adesso lo posso vedere senza più bisogno di monitor. «Baldini, Italy», dice lo speaker alla gente in attesa. Manca soltanto un giro, sotto lo sguardo del mondo. «Quando sei stanco pensa che un giorno vincerai le Olimpiadi» Me lo racconterà lui quello che è successo, la partenza in discesa, la rincorsa, Vanderlei Lima aggredito da un tipo che consigliava al mondo di leggere la Bibbia che ha sempre ragione, il sorpasso dopo due ore di gara, e l’ultimo pezzo di strada da solo, incontro alla gloria, con i pensieri accavallati. Eccolo, taglia il traguardo allargando le braccia, senza più forza per alzarle. «Mi sono superato, se non vai oltre i tuoi limiti un’Olimpiade non la vinci, non così. Ero preparato ad andare al di là delle mie possibilità, ma un giorno così ti capita soltanto una volta nella vita. Questa non è storia, è già leggenda». La frase che mi ha chiesto Torromeo ce l’ho già, potrei andarmene a scrivere il è diffi cile smettere di piangere, il campione olimpico è qui, è quel bimbo con tanti fratelli che vinceva le corse campestri e non mi sembra vero che siamo qui tutti e due, noi che qualche anno fa aiutavamo Grandi e la Carli a montare gli ostacoli prima di un meeting. Stefano parla, piange, parla. «E’ stato esaltante, leggendario. Partire da Maratona, correre sulla strada della prima Olimpiade, ho passato gli ultimi tre o quattro chilometri in uno stato di beatitudine, me li sono proprio goduti». Non importa cosa è successo prima, come ci sei arrivato: la vita è come lo sport, non devi mai smettere di correre. Magari non vincerai le Olimpiadi, come diceva quella matta della Fidal per convincerti a non mollare. O forse le vincerai, e nessuno si potrà più dimenticare il tuo nome.