Sulla Grosse Strasse di Norimberga, in fila in auto all’ora del tramonto, mi apparve chiaro che l’Italia avrebbe battuto i tedeschi e conquistato la sesta finale mondiale della sua storia. L’epifania era capitata a me, che non avevo mai indovinato un risultato. Anni prima avevo scommesso su un risultato, per il puro piacere di provare la banale sensazione della vincita. L’obiettivo era presentarsi con aria trionfante davanti all’annoiata addetta dello sportello dell’agenzia, sotto la redazione di piazza Indipendenza. Per questo avevo scelto un risultato scontato: vittoria della super Juve in casa contro l’Udinese di Bierhoff : dieci euro per vincerne uno. Naturalmente finì in pareggio. Stavolta, a quattro giorni dalla partita, era stato diverso da tutte le altre: decine di auto erano incolonnate lungo la corsia di destra della Grosse Strasse che fiancheggia lo stadio del Norimberga. Restava la corsia di sinistra, magicamente vuota. Su consiglio di un collega, Antonio Maglie, avevo deciso di mettere la freccia e scartare sul lato, convinto di ritrovarci dietro la pattuglia della polizei. Doveva pur esserci un motivo per cui tutti stavano, pazienti, in coda. Entrati nella corsia, avevamo cominciato ad avanzare e superare un’auto, poi due, poi tre, sotto lo sguardo degli automobilisti tedeschi, muti e impenetrabili. Poi, all’improvviso, si era materializzata un’auto alle nostre spalle. La polizia. No, era una berlina grigia, e dietro quella un’altra e un’altra ancora. Le auto di destra avevano seguito la nostra scia, rassicurate dal fatto che uno avesse aperto il varco. Lì era arrivata l’illuminazione: sì, i tedeschi, così lineari, razionali, i primi censori di loro stessi, non avrebbero avuto chance contro il nostro istinto di sopravvivenza nel momento in cui la fragilità della partita sarebbe emersa. Non ci sono individui, ma tedeschi, mentre noi siamo l’opposto. In realtà, c’erano stati altri segnali. I nostri avversari, alla viglia, pensavano solo alla finale, avevano un’insolita ansia di arrivare prima possibile al futuro. La Federazione tedesca aveva già distribuito i biglietti omaggio per la notte di Berlino. La Bild aveva invitato a boicottare le pizzerie italiane per ritorsione contro la squalifica a sorpresa di Torsten Frings dopo la rissa di Germania-Argentina, cosa di cui accusavano gli italiani. Il placido Jurgen Klinsmann ci aveva dato il cordiale benvenuto: «Dortmund sarà come un vulcano». La città è apparsa rovente, attraversata da un fiume di maglie bianche, che andava dalla piazza del vecchio mercato, l’Alter Markt al parco dello stadio. Ma, pur giocando in casa, i tedeschi erano soli al mondo e lo sapevano.
Diego Maradona li aveva bocciati: «La Germania perderà perché gioca male». Il vecchio presidente della Fifa, Joao Havelange, incontrato nella hall dell’hotel della Fifa a Berlino, ci aveva rassicurato: «A Italia vai ser campeao», diventerà campione. Ma in semifinale, avevamo ribattuto, c’è la Germania. E lui, senza cambiare espressione: «A Italia vai ser campeao». E poi i camerieri italiani di Amburgo che sognavano la rivincita, quelli in eterno esilio di Berlino che si erano appuntati la coccarda tricolore sulla camicia bianca tappezzata di sudore, i tifosi brasiliani che, con la solita fiducia nella magia nera di Yecolpire manjà, avevano acquistato il biglietto della finale con cinque mesi d’anticipo. Erano tutti per noi. Come i due giovani californiani, Alethea Roth e Shawn Dufraine, registi innamorati dell’Italia, incontrati lungo il viaggio in treno da Berlino a Dortmund. Lei intenta a leggere un libro di Italo Calvino. Lui, sdraiato lungo il corridoio tra le file di poltrone a fare stretching. «L’Italia vincerà il Mondiale, siete speciali, i tedeschi non hanno fantasia», aveva confessato Shawn, dopo essersi rimesso in piedi. Queste erano le premesse. Ma bisognava giocare e l’atmosfera è apparsa subito spaventosa. Il Westfalenstadion ha mostrato il suo abito più ostile e paralizzante. Il muro bianco di sessantamila spettatori non rende l’idea: quando entri in tribuna stampa, vedi davanti a te la gradinata verticale, e più avanzi, più quella sale e ti chiedi se non finisca più. Ti senti come un microumano finito, per incantesimo, in fondo a una lattina di birra, circondato solo da mura altissime e insuperabili. I cinquemila italiani erano stati relegati in un angolo in cima. I fi schi all’esecuzione del nostro inno hanno confermato le sensazioni: ci odiano. Non volevano solo batterci, ma umiliarci. Questo si rivelerà il loro trauma iniziale. Fin dall’inizio c’è stata subito molta Italia, decisa a incidere nelle paure inconsce di un popolo. Noi, il loro incubo irrisolto da Messico ’70.
Totti pesca Perrotta in area ma il centrocampista si allunga e il portiere Lehmann para. Grosso sfonda sulla sinistra, mette al centro per Toni che gira in porta, Metzelder salva. Partenza azzurra impressionante, ma alla mezz’ora la Germania sfiora il vantaggio: Pirlo perde palla, Klose serve Schneider che, appena dentro l’area, tira sopra la traversa. Se nella ripresa Buffon non avesse sventato due volte su Klose e Podolski, forse staremmo a parlare di un’altra partita, ma a venticinque minuti dalla fine è emerso il vero vincitore della serata: Marcello Lippi. Forse non c’è nessuno tecnico che dia così tanto alla squadra quanto lui. Vedendo gli azzurri più lenti, il ct ha fatto il primo cambio: dentro Gilardino, fuori Toni. Poi, al 90’, in vista dei supplementari, fuori Camoranesi e dentro un altro attaccante, Iaquinta. E al 104’, fuori Perrotta per Del Piero. Tre cambi offensivi, in casa dei tedeschi. In quel modo Lippi ha detto ai tedeschi che lui stava allenando una grande squadra e che il destino avrebbe premiato gli audaci. La differenza, l’alchimia vincente, la chiave d’accesso a una partita epocale. Con l’epilogo migliore.
A due minuti dalla fine eravamo spremuti ma i tedeschi, reduci dal supplementare con l’Argentina, ancora di più. Angolo di Del Piero, il pallone arriva a Pirlo, appena fuori area. Il regista potrebbe tirare come si fa in questi casi per evitare il contropiede, invece i tedeschi fanno i tedeschi anche stavolta: se ne stanno in otto in area, senza marcare nessuno, quattro vanno incontro a Pirlo, annebbiati, stremati, in linea, come soldati di una trincea ormai persa, lasciando alle loro spalle un azzurro completamente solo, Grosso. Il passaggio dentro, alla fine, è la cosa più naturale. Grosso ha il merito di colpire senza stoppare, di colpire di sinistro a girare sul secondo palo. Lehmann neanche vede partire il tiro. L’urlo dei tifosi italiani è uno schiaffo sonoro. I giornalisti si abbracciano. Grosso corre scuotendo la testa per dire, non ci credo, proprio io. Mentre i tifosi tedeschi pensano: non ci credo, ancora loro. Siamo al 119’, e non è finita. Un minuto dopo
Cannavaro ferma l’assalto tedesco, prima rinviando di testa da dentro l’area, poi salendo di venti metri per rubare palla a un avversario e recuperare il suo stesso lancio, come in certi film assurdi sul calcio. Totti lungo per Gilardino, l’attaccante serve alle sue spalle, non lo vede ma lo sente, Del Piero che entra in area e con una veronica inesorabile e perfetta di destro infila il pallone all’angolino. Due a zero in un minuto. In casa dei tedeschi. Stadio ammutolito, mentre sugli schermi appare il viso di una ragazza bionda, maglietta bianca, in lacrime. L’arbitro messicano Benito Archundia dichiara la fine dei giochi. Gli azzurri vanno a Berlino nel modo migliore, da dominatori sul calcio secondario dei tedeschi, restando se stessi: compatti e coraggiosi, quando serve, quando tutto sembra remare contro, trovando la soluzione, per essere seguiti da tutti gli altri. Noi italiani, alla fine, anche con i nostri errori, siamo sempre qualcosa in più del tempo che ci resta. E’ stato così, nella notte di Dortmund, lo saremo sempre. Dalla Grosse Strasse a Grosso a oggi. E’ nel destino.