Gli incredibili

«Unbelievable, unbelievable» sta gridando il telecronista della BBC per i colpi di John, che ora riceve da sinistra, gioca di rovescio dal centro del campo su Borg in avanzamento, una manata maldestra, la palla che affonda nella rete. Il tie-break è finito: 18-16 per il Moccioso. Avremo un quinto set, mentre sul campo centrale le donne iniziano a coprire le spalle coi golfini
Angelo Carotenuto
9 min

Diciotto minuti dopo le due di pomeriggio, ora di Londra, ci sono suppergiù ventitré metri di distanza fra questi due uomini così lontani e così diversi. L’erba che li separa è alta non più di otto millimetri, come sempre qui, dove ogni dettaglio nel tempo è diventato parte del Rito. La prima domenica di luglio a Wimbledon è per il tennis come la messa di Natale pei cristiani. Disse una cosa del genere e molto meglio Giorgio Bassani tempo fa, niente è cambiato da allora, neppure oggi, 5 luglio 1980, con un tipo biondo e dai capelli lunghi in fondo al campo, un altro tutto riccioli e nervi di qua, pronto a battere la prima di servizio di una fi nale che presto chiameremo la partita più bella di sempre. Una donna con gli occhiali in sedia a rotelle è seduta con un plaid sulle gambe a bordo campo, adesso che John McEnroe, americano, anni 21, sembra accartocciarsi su se stesso, stringe la pallina nella destra e fa dondolare insieme, mano e braccio sinistri, quattro o forse cinque volte. Il suo corpo è pronto come a uno sparo. Suo padre John Patrick è seduto in tribuna, ha un cappellino bianco sulla testa. Ha chiuso l’uffi cio a New York ed è volato qui con mamma Katherine, che come sempre succhia caramelle nella convinzione che la cosa porti fortuna al suo bambino. Oltre la rete in attesa si soffi a sul palmo della mano Bjorn Borg, svedese, tre anni in più. Questa è casa sua. Qui dentro non perde da trentaquattro partite di fi la e non è certo la trentacinquesima che vuole regalare. Ha vinto quattro titoli, ma sotto lo sguardo di quindicimila persone stavolta sa di avere un gran rivale.
Sarebbe banale se fossero solo due avversari. Sono molto di più, sono due poli, due stili di gioco, due archetipi. Dall’anno scorso John è per i tabloid di qui Superbrat, cioè il Moccioso, perché sfascia le racchette, scuote il seggiolone degli arbitri, urla insulti irripetibili. Sembra che stia al mondo per un continuo regolamento di conti. Con il rivale, con la vita, forse solo con se stessi. È irascibile, provoca, cerca la rissa. Bjorn invece è detto l’Orso con molta meno fantasia. È serafi co, altero, pare insensibile. In realtà lo è diventato da un giorno all’altro, giurando a se stesso e al suo maestro che mai più avrebbe dato di matto su un campo per ritrovarsi poi in mille pezzi, fragile, esposto. Ha fatto un lungo viaggio interiore per diventare quello che è, stipando gli eccessi nella sua vita fuori dal campo, ma questo verrà dopo, questo oggi non si sa.
Borg è spuntato dal nulla. Prima di lui in Svezia non c’è stato nemmeno un tennista in grado di vincere uno Slam. È il frutto di un piano didattico di diff usione dello sport nelle scuole voluto dal governo socialdemocratico. Il padre gli ha comprato una racchetta e lui si è messo a martellare il muro del garage, fi no a diventare quello che adesso è sotto i nostri occhi, una icona pop del suo Paese - passato in un decennio da Ingmar Bergman agli Abba - e il primo a far gridare di eccitazione le teenager su un campo da tennis. È nato nella stessa zona di Greta Garbo. Di lui si dirà che è stato come una scossa sexy in una gita della parrocchia. Un rivoluzionario dentro un mondo immutabile, fatto di quiet please e fragole alla panna.
McEnroe oggi è partito più forte di lui, subito un set avanti (6-1) e tre volte una palla break per portarsi 5-4 e servizio nel secondo. Sta giocando il suo solito tennis, che è ricerca ossessiva della rete, meglio se subito, appena dopo il servizio. McEnroe ha cambiato il gioco d’attacco. Ha sostituito la leggerezza con l’energia. È il primo a spingere la volée, non solo a toccarla. È come se portasse con una chitarra elettrica un colpo che prima di lui si giocava con il piumino per la cipria. John è un fantasista quanto regolarista è l’altro, il semi robotico Bjorn, eppure a suo modo geniale nell’imporre al mondo un gesto che esisteva ma che lui ha portato all’eccellenza: il rovescio a due mani. Ha messo il brevetto sul top spin, la palla colpita dal basso verso l’alto con un movimento di polso. È il suo instancabile schema. Il punto è che quando i regolaristi scelgono di spiazzarti, non sai più come prenderli.
Questo succede adesso. Sotto nel gioco e nel punteggio, Borg sta decidendo di rubare la strategia di John. Scende a rete. Spesso. Non sta improvvisando, figurarsi. Nell’estate più piovosa degli ultimi 101 anni in Inghilterra, si è allenato giorni e giorni al coperto mentre McEnroe si logorava di lunghe attese nel suo albergo. L’Orso viene avanti a prendersi i punti, sorprende, ribalta la partita. Vince 7-5 il secondo set e 6-3 il terzo. È stato il primo a intuire che sull’erba scivolosa occorrono scarpe differenti dalle solite, si è fatto produrre una suola speciale, facendo la fortuna di un’azienda trevigiana che prima si dedicava agli scarponi da montagna, la Diadora. Anche la sua magliettina a righe strette, attillatissima, è italiana. Borg veste Fila, McEnroe Tacchini. Il made in Italy comunque vincerà stasera. Quello che stiamo guardando è in fondo un classico dello sport, il confl itto tra la concretezza e l’eleganza, per la prima volta nel tennis dopo Coppi contro Bartali, dopo Ali contro Frazier, dopo Lauda contro Hunt. Lo stiamo guardando noi, nel senso di tutti, perché il tennis con Borg è arrivato dove mai prima, in televisione, sebbene queste palline bianche con cui giocano oggi pomeriggio si vedano poco e male, e prima o poi - c’è da esserne certi - ne useranno di colorate, magari gialle o forse verdi.
Quando negli anni scorsi ha vinto a Wimbledon, Borg si è sempre inginocchiato. Ora gli manca un punto solo per farcela di nuovo, 5-4, 40-15, due match point nel quarto set. Ma un punto nel tennis è una montagna. Mc ne piazza lui quattro di fi la: un passante, poi un uncino al volo, un terzo per un errore dello svedese e un altro con un angolo perfetto. La folla grida. Non perché faccia il tifo per lui ma perché con lo stesso biglietto vedrà del tennis in più. Stacy, la fi danzata di Mac, in tribuna si stringe il naso dentro un pugno. Si tormenta invece le mani Mariana Simionescu, la ragazza di Borg, tennista anche lei, si sposano fra qualche mese.
Tie-break, allora. John smania. Gli dà fastidio la maglia sudata sulle spalle. Borg prende una riga, due volte il nastro sul servizio e si becca un’occhiata di McEnroe. Nei primi otto punti nessuno ha tolto il servizio all’avversario. L’equilibrio è rotto da Borg, che sul 6-5 si giova di un altro match point. Il tennis è lo sport che premia di più l’imperfezione. L’ha istituzionalizzata. Consente di vincere facendo meno punti dell’avversario. È il gioco della riabilitazione. Che cosa sarebbe, se non questo, la seconda di servizio? È un gioco in cui si sbaglia tanto ma invita a guardare sempre avanti, a dimenticare subito l’errore, a tenere leggeri i pensieri e tirare dritto. Così, a forza di magie e nuove occasioni, sono già venti minuti che questi due giocano il tie-break, una cosa mai vista, sul 15-15 quasi dimenticano pure di cambiare campo. Unbelievable, unbelievable sta gridando il telecronista della BBC per i colpi di John, che ora riceve da sinistra, gioca di rovescio dal centro del campo su Borg in avanzamento, una manata maldestra, la palla che aff onda nella rete, Stacy sulla balconata esausta che si appoggia alla ringhiera. Il tie-break è fi nito: 18- 16 per il Moccioso. Avremo un quinto set, mentre sul campo centrale le donne iniziano a coprire le spalle coi golfini.
È un miracolo che si vada avanti e ci sia ancora una partita, se pensiamo che di 29 punti al servizio Borg ne lascia all’avversario solo uno. Mac regge fi no a quando va a servire sotto per 6-7. Il tie-break al quinto non esiste. John è stanco. Prima strozza una mezza volée, poi si avventura a rete senza logica. Borg lo passa due volte. Undici minuti dopo le sei della sera, a distanza di un’ora e 13 dall’ultimo match point, a Björn ne tocca un altro. Mac si dondola e serve da destra, da dove gli è impedito di cercare l’angolo esterno che tanto gli piace. L’altro piazza una risposta di rovescio per assaggiare l’aria che tira. John prendeil centro del campo ma gioca uno sgorbio che gli viene restituito sotto forma di passante, come un proiettile da fi onda. Björn ha chiuso gli occhi e lo ha tirato, poi quando li ha riaperti, ha visto John che si è tuff ato e la palla alle sue spalle. L’ultimo scambio è durato quattro tocchi. Borg si sta sbucciando di nuovo le ginocchia sull’erba. Dovrà rialzarsi, darsi una sistemata e fare l’inchino alla duchessa di Kent che gli porgerà il trofeo, mentre il più grande scrittore italiano di tennis, Gianni Clerici, sta cercando la frase perfetta per cominciare il suo articolo. Quando Björn alza la Coppa e la bacia, lui batte sui tasti della sua macchina per scrivere: «Sono stato tre ore e cinquantatré minuti senza fare la pipì».
 


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