Il cuore grande di Patrizio

I momenti e gli eroi del passato riletti al presente. Nelle emozioni la carica per resistere e ripartire
Mimmo Carratelli
10 min

Questa estate del 1980 a Mosca, tra luglio e agosto, è magnifica, e Mosca fa un po’ l’americana, splendida splendente, un po’ blindata, un po’ aperta, per il boicottaggio gli americani non sono venuti e i russi ci sono rimasti male. Sono qua per le Olimpiadi, inviato del quotidiano Roma di Napoli che sta per chiudere. Lauro ha 93 anni, la Flotta è fallita e sta mollando il giornale, uno dei suoi beni minori, il meno redditizio.

Ed ecco che sono con Italo Cucci e Adalberto Bortolotti, il popolare Meme che scrive da dio, e un po’ per celia e un po’ per non morire disoccupato mi raccomando alla loro simpatia e solidarietà e, fortuna mia, mi prendono sul serio. Due anni dopo, col Roma chiuso, mi chiamano al Guerin Sportivo, Italo mio santo protettore e Meme mio angelo custode.

Intanto sono a Mosca col gruppo degli atleti napoletani e due ne tengo d’occhio, il minuscolo lottatore di un metro e 58 Claudio Pollio, scugnizzo di Secondigliano, e il mio amico pugile Patrizio Oliva, lo Sparviero di Poggioreale. Due ventenni di periferia. Per tredici giorni, a Mosca, io e lo Sparviero viviamo la nostra Olimpiade tra il villaggio olimpico a sud-ovest della città (18 palazzine di quindici piani, al Parco Izmailovo), i grandi prati al di là della monumentale università e, per la boxe, la gigantesca palestra coperta dell’Olympiiski che sta dall’altra parte di Mosca, verso il Parco Sokolniki.

E, naturalmente, sono in tribuna stampa per il primo match di Patrizio, e Patrizio ha la faccia dura e spigolosa del debutto. L’avversario si chiama Aurelien Agnan, viene dalle paludi del Benin, nell’Africa occidentale, e non mi sembra un granché. Patrizio gli saetta il primo pugno e quello ha la faccia già devastata dalla paura e l’arbitro lo manda via al primo round. Patrizio viene via scontento. Avrebbe voluto fare un po’ più di pugni.

Mosca offre vodka, caviale e tentazioni bionde. La Piazza Rossa di notte è uno spettacolo, anche agghiacciante dati i tempi. Il presidente è Breznev, un ucraino settantenne dalla faccia ampia e dura, i capelli folti tirati all’indietro, due sopraccigli densi e minacciosi. Per le Olimpiadi hanno costruito il più grande albergo dell’Unione, il Cosmos, un mostro a semicerchio di 25 piani e duemila camere. Io alloggio più modestamente al settimo dei quattordici piani del Rossija al centro di Mosca, davanti al Parco Zaryadze. In fondo al lungo corridoio dov’è la mia camera c’è sempre seduta una donna grossa e silenziosa.

Giulietto Chiesa scrive delle Olimpiadi su l’Unità. Peppe Pacileo, inviato de Il Mattino di Napoli, per l’occasione ha imparato il russo, ma non vuole farmi da interprete con una telefonista lituana. Sto con i colleghi del Corriere dello Sport. Albertone Marchesi ascolta le mie solite battutacce e mi manda romanamente a cagare. Andrea Girelli è tutto preso dal basket. Vanni Loriga spasima per l’atletica e impazzisce per Mennea. Alfonso Fumarola segue il nuoto e mi sembra un signore un po’ sulle sue. Per il pugilato c’è il piccolo, delizioso Ermanno Mioli, bolognese di Medicina. Appassionato ed esperto cronista di ciclismo è a Mosca perché nell’abbinamento editoriale Corriere dello Sport-Stadio spetta a un giornalista della testata bolognese essere qui alle Olimpiadi. Mioli lavora a Bologna, gli tocca la boxe.

Al secondo match di Patrizio ho addosso l’emozione del salto vincente di Sara Simeoni allo Stadio Lenin e Gianni Brera che batte sui tasti dell’Olivetti portatile il suo alato commento per Il Giornale di Montanelli. Arrivo al Parco Sokolniki. Per Patrizio c’è un siriano. Si chiama Halabi. Resiste due riprese. Prima del secondo gong è fuori, palese inferiorità, l’arbitro caccia anche lui, kappaò tecnico come si dice. Era capitato anche ad Agnan del Benin. Patrizio mi dice: «Ora comincia il bello».

Il bello o il brutto, al terzo combattimento, è uno jugoslavo attaccabrighe, il molto rissoso Rusevski. Sono giornate splendide per l’Italia a Mosca. Paolo Rosi ha appena finito di eccitare i telespettatori della Rai con la vittoria di Mennea sui 200 metri. Vado al match con Rusevski.

Apro la custodia della mia Olivetti verde pastello. Vedo Patrizio col braccio sinistro teso e il destro raccolto. Lo slavo ringhia. Cerca il corpo a corpo per fare ammuina. Dalla faccia spigolosa, da sotto i capelli crespi, da sotto la fronte ossuta, da sotto le sopracciglia lunghe e folte Patrizio fissa lo slavo e comincia a infastidirlo guardandolo dritto negli occhi e toccandolo al viso col pugno sinistro teso.

Al secondo round Ace Rusevski, macedone che combatte per la Jugoslavia, scarica tutta la sua rabbia all’assalto lasciando qualche segno sul viso di Patrizio. Attorno al ring c’è il tifo infernale di un gruppo di jugoslavi. Nel terzo round, il macedone piazza un destro che mi fa sobbalzare. Patrizio conclude il match con autorevolezza. I giudici danno il verdetto. L’arbitro alza il braccio destro di Patrizio. Si va avanti.

Siamo alla semifinale del torneo, l’avversario è Anthony Willis, minatore di Liverpool, che nel turno precedente ha steso per kappaò il più bello dei pugili a Mosca, il tanzaniano Lyimo. Willis è un ragazzone massiccio, guardia destra.

Voglio bene a Patrizio. Mi parla del bar del suo quartiere a Napoli, della fidanzata, dei fratelli, dello scantinato dove ha cominciato a fare a pugni. Vuole una carriera rapida perché la boxe non è tutto, vuole una famiglia e un lavoro stabile. Con Willis è un bel match, Patrizio è in forma, stuzzica continuamente l’inglese col sinistro lungo, nodoso, rapido. Il minatore se ne sta arroccato, bianco e arroccato, fa una boxe molto pulita, impostato all’antica, busto eretto, testa eretta, gambe un po’ larghe, le braccia curvate. Patrizio è scintillante. Incassa un paio di colpi e li restituisce. L’arbitro conta in piedi l’inglese di Liverpool. Vittoria netta: 5-0 per i giudici. Olé, Patrizio, andiamo alla finale dei superleggeri al limite dei 63,5 chili.

Serata emozionante, lunga, sofferta, indimenticabile all’Olympiiski. Lo speaker annuncia Patrizio Oliva contro Serik Konakbaek che è un cosacco, perciò uno di casa. Si porta la mamma dietro e picchia con una tenacia da campione. Patrizio ha un conto aperto con lui. L’anno prima, a Colonia, una giuria partigiana ha assegnato il titolo europeo dei dilettati al sovietico, ma il match l’aveva vinto Patrizio.

Guardo il cosacco nel suo angolo. Ha il favorevole presentimento di uno che combatte in casa. Suona il gong. Patrizio, per favore, fa’ vedere subito chi sei. Per favore, Patrizio. Il russo è una grande macchina atletica, ma Patrizio ha più fantasia, è più veloce. Quando l’altro abbassa istintivamente il braccio dopo avere portato il jab sinistro, Patrizio entra col destro. Il primo round mi sembra nostro, Patrizio. Ma attento, Pat. Ho visto l’orgoglio e la potenza del cosacco contro Aguilar il cubano. Attento, Patrizio. Gioca d’anticipo, non dargli tempo, per favore, Patrizio.

Ed ecco Konakbaek che viene avanti con tutti i suoi trucchi, la testa bassa, vuole ingarbugliare il match, vuole confondere Patrizio e i giudici, fa una boxe da saloon. Vedo Patrizio bloccato, non mi sembra più lui. Finisce il secondo round e Konakbaek va soddisfatto verso il suo angolo. Guardo Patrizio. Non mi sembra sorpreso, né sofferente, certamente sa che cosa fare, solo che non era ancora il momento. Il momento viene al terzo round.

Il russo attacca a testa bassa. Tra i giudici non c’è neanche un occidentale e forse sono di quelli che preferiscono la rissa, non lo stile. Il cosacco vuole la bagarre, i giudici vogliono la bagarre. Il match si fa duro per Patrizio. Sospiro: non è la tua boxe, Pat, come farai?

Ma Patrizio ha un cuore grande. Diventa un guerriero. Ha capito che cosa fare. Mulina le braccia come un grande guerriero, il russo tenta inutilmente di venire avanti, è un toro infuriato. Patrizio accetta la bagarre e sa come cavarsela. Soffro in tribuna stampa, l’Olivetti portatile verde pastello mi guarda. Non ho ancora messo un foglio nel rullo. Sobbalzo. Patrizio, sbilanciato dal cosacco, scivola ma si rialza tranquillo, sicuro, per niente sorpreso.

Ora Patrizio parte al contrattacco. Sono scambi duri e così si va avanti fino alla fine. Il russo ha la forza dei momenti decisivi, ma Patrizio è più lucido. Sono due fantastici combattenti. Arriva sulla faccia del cosacco un destro di Patrizio. E’ il suggello del match. Konakbaek raggiunge il suo angolo con la sconfitta nel cuore. Grande, povero cosacco, suonatore di chitarra, appassionato di jazz e pittore di paesaggi. Ecco i due pugili al centro del ring. Patrizio aspetta che l’arbitro gli sollevi il braccio perché Patrizio è sicuro, il cosacco ha la rilassatezza dello sconfitto, Patrizio asciutto e muscoloso ha già sul viso la luce della vittoria. Pat ha sempre detto la boxe non è rissa, è scherma, schiva, rientra e colpisce, classe pura.

L’arbitro alza il braccio di Patrizio, 4-1 il verdetto dei giudici. Patrizio cade in ginocchio sul ring, negli occhi la dedica segreta a quel suo fratellino morto a quindici anni. Conosco la storia.

Fuori è già notte, una tiepida notte moscovita. Aspetto Patrizio, campione olimpionico, che venga fuori a fare un po’ di festa e a dirmi qualcosa per l’intervista, ma Patrizio resta chiuso nello spogliatoio, accidenti Pat, è quasi mezzanotte, il giornale aspetta l’intervista. Scusatelo, ci avvertono, ha problemi con l’antidoping. Non gli riesce di fare la pipì. Accidenti, Patrizio, campione olimpionico. Vado a inventarmi l’intervista più emozionante che mi sia mai inventato. E’ tardi. Neanche ho il tempo di scriverla, afferro un telefono, la detto “a braccio” al giornale. L’Olivetti portatile verde pastello mi guarda offesa.

 


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