L’aria è immota, l’afa primordiale, tra questi saliscendi, tra queste basse colline macchiate dai vigneti. Sant Sadurní d’Anoia, quaranta chilometri da Barcellona, sta alla Spagna come Erbusco sta all’Italia o Épernay alla Francia: è la capitale, il cuore della produzione del Cava, lo spumante spagnolo. Il Penedés, questa piccola zona della Catalogna tra Barcellona e Tarragona, è la Franciacorta, la Champagne della Spagna: 32 mila ettari di terreno vitati e 250 cantine tra cui la celebre Codorníu, l’unica della nazione a essere tutelata dalle Belle Arti. L’opera, progettata dal grande architetto modernista catalano Josep Puig i Cadafalch, è stata dichiarata bene di interesse culturale nazionale. I corridoi sotterranei della cantina si estendono per 30 chilometri nel sottosuolo, conservando le preziose e frizzanti bottiglie.
Ma a noi, in questa domenica che si rivelerà bestiale di caldo e medaglie azzurre ai Giochi della XXV Olimpiade di Barcellona, in questo 2 agosto del 1992, interessa quello che c’è sopra, il circuito di 16,200 chilometri, da ripetere dodici volte.
Oggi ci alziamo presto, c’è un bus da prendere non dico all’alba, ma quasi. Si tratta dell’unico modo per arrivare a destinazione. Il capolinea è accanto al centro stampa, alla base del Montjuic. Nella domenica di mezzo dell’Olimpiade, c’è la prova di ciclismo su strada. L’ultima della storia a cinque cerchi con i dilettanti. Dalla prossima, Atlanta 1996, arriveranno i “pro”, i grandi campioni che infiammano Giro, Tour, Vuelta. Sarà l’ultima barriera olimpica a cadere. Negli anni ’80 hanno sfondato tennisti e calciatori e proprio a Barcellona si è materializzato, dopo un’attesa messianica, il Dream Team, la squadra congli assi del basket NBA i cui nomi, da Michael Jordan a Larry Bird, provocano un brivido (meno male con ‘sto caldo), solo a menzionarli.
Ma tra questi saliscendi, tra queste vallette profonde che fanno tanto bene ai vigneti di Cava ma avvolgono in una foschia di calore gli esseri umani, ci sono ancora i dilettanti. Non c’è vento, se non lo spostamento d’aria prodotto dagli altri corridori. Da cui ti devi guardare, specialmente i primi giri, quando il gruppone è ancora compatto. Le gare dei dilettanti all’Olimpiade non sono come quel film, “Non si uccidono così anche i cavalli” e nemmeno come una “Corrida”, però sono percorse da veri dilettanti allo sbaraglio. E possono rivelarsi delle trappole. Partecipano, seguendo lo spirito decoubertiniano, ciclisti di paesi dove, non certo per colpa loro, le biciclette le hanno viste solo qualche mese prima dell’Olimpiade, e stanno in sella per la pratica. Gli incidenti, le cadute, gli speronamenti, nella concitazione iniziale sono una costante. Insomma, quelli bravi devono scavallare la caienna dei primi due, tre giri, schivando i ciclisti della domenica olimpica e scappare via dalla pazza folla che, col tempo, si assottiglia con una selezione naturale. Chi rompe la bici, chi non è abituato a questo ritmo e molla.
Sul bus che ci porta al circuito, io e Gianpaolo Ormezzano ci guardiamo scuotendo la testa. Entrambi abbiamo sbagliato abbigliamento. Sono tutti in bermuda e camicie svolazzanti, tutti leggeri, tranne noi. In tribuna, poco oltre l’arrivo, alla fi ne di un tratto in leggero pendio, ci denudiamo con una performance che rammento per la cronaca ma non per lo spettacolo offerto. Per fortuna, nessuno si ricorderà di noi. La memoria di questa domenica d’agosto se la prende tutta Fabio Casartelli, nato a Como il 16 agosto 1970, però cittadino di un piccolo paese della provincia, Albese con Cassano, quattromila anime devote alle due ruote, che ha già dato un oro olimpico alla patria: Paolo Pedretti, ciclista del quartetto che conquista il titolo dell’inseguimento a squadre a Los Angeles. E’ il 3 agosto 1932, settant’anni (meno un giorno) fa. Casartelli ha studiato elettronica, si è messo a lavorare sui computer, ma poi il ciclismo lo ha preso con sé. Lo attende, alla fi ne di questa gara, al termine di questa stagione il passaggio ai “pro”. Abbiamo una buona squadra, il terzetto assemblato dal commissario tecnico Giosué Zenoni è da battaglia. “Il dottore” lo chiama Casartelli che, dei tre azzurri, è il meno forte, il meno carismatico. Mirco Gualdi, campione del mondo del 1990, e Davide Rebellin, soprattutto, sono più titolati e più attesi. Proprio per questo “il dottore” si avvicina a Fabio, prima della partenza, e gli sussurra: “Sarai il meno marcato, provaci”.
Tre corridori non possono fare la diff erenza, come accade con le squadre più numerose in una corsa “pro”. Eppure i tre italiani ci riescono, manco fossero sei, nove o dodici. Orchestrano una gara che pare una sinfonia, abbagliando avversari del calibro di un americano che farà parlare moltissimo (e molto male) di sé, Lance Armstrong, e di un tedesco di nome Erik Zabel. Mentre si assottiglia il gruppone, come previsto, vanno via il francese Pascal, il belga Thijs e l’austriaco Totsching. “Tutto previsto” dirà “il dottore”. Il peloton li riprende. A metà corsa è Mirco Gualdi a gestire la fuga decisiva a nove, mentre Rebellin resta nelle retrovie, con un certosino e umile lavoro di depistaggio a due facce: 1) attirare su di sé l’attenzione dei nemici; 2) stoppare tutti i tentativi di revanscismo dei migliori. Quando i migliori si accorgono della strategia italiana, ormai è troppo tardi. A diciassette chilometri dall’arrivo, poco più di un giro e mezzo, Fabio Casartelli piazza l’allungo decisivo. Suoi compagni d’avventura sono l’olandese Erik Dekker e il lettone Dainis Ozols. Il lettone prova a lanciare lo sprint, ma all’ultima curva è Casartelli a mollare la compagnia. Mancano duecento metri ma si capisce che non lo prendono più. Dekker esulta ancora prima di Fabio, felice per l’argento. Casartelli arriva con le mani al cielo sotto il traguardo. Le alza con grande anticipo, sa di avere vinto.
Noi la volata la vediamo dal vivo, ma i telespettatori hanno rischiato di perderla, perché un improvvido regista ha staccato sul gruppo proprio al momento in cui il trio di testa affronta gli ultimi duecento metri. Ma questo lo scopriremo dopo, adesso travolgiamo transenne e controlli e ci scaraventiamo sulla strada, felici, accaldati e stanchi come se li avessimo percorsi noi i 194 chilometri e rotti in mezzo ai vigneti. E’ il quinto oro olimpico azzurro su strada, il primo dal 1968. Mentre circondiamo Casartelli, maglia azzurra, riccioli sudati in testa, occhi gentili, ci troviamo accanto un signore anziano, robusto in canotta bianca e cappellino da ciclista. Lo insultiamo. “Ma si tolga dai piedi, qui stiamo lavorando”. Lui, le lacrime agli occhi, timidamente replica: “Ma io sono il papà”. In questo caso, scatta l’intervista. Sergio Casartelli, elettricista comasco con otto gare tra i dilettanti, ci racconta che è arrivato in corriera da Albese con Cassano insieme con mamma Rosetta, con la fi danzata di Fabio, Annalisa e 70 amici. Tutta una tirata, per la guida sicura dell’autista Elio. “Il giorno più bello della mia vita” ripete il signore in canotta. Fabio aggiunge poco di più: “Alla vittoria ho cominciato a pensare nell’ultimo giro. Ringrazio il dottore, i compagni, i tifosi. Questa medaglia ripaga tutti i sacrifici”. Non sentiamo più il caldo, l’asfalto non brucia. Pare, perfino, di percepire un filo d’aria. Non è un miraggio. Il tricolore, qualche minuto dopo, sventola sul pennone più alto.
PS 1 (il giorno dopo, 3 agosto 1992) Apro il Corriere della Sera, e, a corredo del mio articolo sulla vittoria di Casartelli, c’è una foto di lui a Casa Italia con il padre e la madre che lo baciano sulle guance, uno da una parte e una dall’altra. Ma il padre non è quello con cui abbiamo parlato noi. Oddio. Però tutto quello che ha detto è vero, non c’è una virgola fuori posto. Ma allora chi era? Forse aveva detto “sono (un amico del) papà” e ci siamo persi qualcosa. Forse è stato un sogno di mezza estate favorito dalle bollicine del cava sparse per quell’aria immota. Forse è stata l’emozione che sempre accompagna un oro olimpico dal vivo.
PS 2 (tre anni dopo, 18 luglio 1995) Tra i ciclisti dilettanti, almeno nel 1992, girava un detto: “Mai vincere una gara importante prima di passare professionista, porta male”. Fabio Casartelli, nel luglio del 1995 è professionista, ha quasi 25 anni, si è sposato con Annalisa e ha un figlio di due mesi, Marco. Sta correndo con la maglia della Motorola, la squadra di Lance Armstrong, la quindicesima tappa del Tour de France, da Saint Girons a Cauterets, un tratto pirenaico. Lungo la discesa dal Colle di Portet-d’Aspet, si scende a 80 all’ora. Il gruppo sbanda, molti ciclisti si scontrano, cadono, finiscono fuori strada. Fabio urta un paracarro. Lo trasportano all’ospedale di Tarbes, dove viene dichiarato morto. Quel due agosto di tre anni prima, tra i vigneti di San Sadunì d’Anoia, quando qualcuno gli aveva ricordato quel detto, Casartelli aveva risposto: “Cosa dovevo fare, frenare?”. Fai buona strada, Fabio.