Zeman torna alla Roma, la grande illusione

Il tecnico di nuovo in giallorosso tredici anni dopo, una di quelle storie che accadono solo in letteratura e quando, per una volta accadono, non ci credi neanche se le vedi
Giancarlo Dotto
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E dunque arriva. Trigoria è deserta, ma l’eccitazione si può toccare con mano. Il Boemo sta per tornare. La sua faccia antica e immutabile da capo indiano. Il suo calcio sinfonico, le sue Marlboro e i suoi cerchi di fumo. Puoi amarlo o detestarlo, non ci si libera facile di uno come lui. «Sarà una Roma spettacolare e divertente», promette Fenucci che lo conosce bene. Baldini e Sabatini si sono presi tutto il tempo che serviva per scegliere chi mettere in panca al posto dell’amato Luis Enrique, che se ne va anzitempo lasciando uno strazio immedicabile.

Alla fine, dopo qualche resistenza, i due sono caduti in tentazione. Riscoprire Zeman è come riscoprire Jean Gabin nelle nebbie del porto o Don Chisciotte nella Mancha che se la prende con i mulini a vento. Incontrare Zeman è come incontrare un classico e allo stesso tempo la follia, non si sa se più promettente o minacciosa. L’avevo lasciato l’ultima volta, un paio d’anni fa, che masticava calcio di terza serie, carne di coniglio e fissava le pale eoliche, i mulini a vento di oggi. Aveva ricominciato dal fondo con il suo Casillo e il suo Foggia, che non erano più quelli di una volta. Ma lui era quello di sempre. Lo era il giorno che partì per Pescara, dove fece sfracelli e replicò le meraviglie di un tempo.

Basta chiamarlo “luna-park”. Più giusto chiamarlo “circo”. Parola strepitosa, che ha dentro di sé la carezza dell’incanto e il brivido del rischio, ma soprattutto, sotto la tenda, l’idea di un mondo separato, irripetibile, di magia e di perdizione. Dove tutto gioca solidale per fare di te una donna cannone da spedire in paradiso. Dove si vince solo per il fatto di essere stati ammessi. E, se non vi piace il circo, chiamatelo cinema. “Cinema Zeman”. Il cinema di Fellini, Kusturica, Bela Tarr, cinema fatto della stessa pasta dei sogni. Chiamatelo romanzo. “Romanzo Zeman”. C’è al mondo una faccia più kafkiana? Un praghese dalle risonanze più magiche? Zeman è una terra promessa ancora prima che un nome.

Zeman che torna alla Roma tredici anni dopo, una di quelle storie che accadono solo in letteratura e quando, per una volta accadono, non ci credi neanche se le vedi.

Basta accendere le radio, girare per le strade, i bar e ascoltare la festa tra la pelle il cuore. «Dimmi che è vero, che torna». «Con lui vado anche in B». «Zeman che torna è già la vittoria più grande», sospira un ex giovane abbonato che non ha mai dimenticato i tagli di Paulo Sergio, Gautieri e Di Francesco, libidine pura, e sogna oggi quelli di Lamela. Lo vogliono tutti, quasi tutti, anche quelli che non sanno di volerlo. Con lui sì lo striscione della Sud, “Mai schiavi del risultato”, ha definitivamente senso. Nasce da lui, dal suo calcio, quello striscione. Lo vogliono, come si vuole la vertigine che ti decapita, sopravvivere e poter dire “io c’ero”. Vincere sono bravi tutti, ma poi ti resta solo sabbia tra le dita. Quello che conta è dare legna alla memoria, a quell’idea inafferrabile che è la vita. Zeman, il boemo, è anche questo: un bagno collettivo nella festa della gioia bambina, contro quell’oltraggiosa e anche un po’ sordida sconfitta che è il diventare adulti, pensosi mammiferi costretti a fare i conti con la propria fine.

Con lui sarà sempre domenica. Sarà una corsa ad abbonarsi. Ho sentito interisti, juventini, romanisti che vivono a Roma e si abboneranno, perché il circo boemo non ha colori, anche se il giallo e il rosso sono i colori che più gli donano e questo Zeman lo sa, lo “sente”. Sono stupito che arrivi Zeman, ma ero ancora più stupito che non arrivasse. Nella baraonda dei nomi, la domanda era sempre la stessa: perché non Zeman? Tanto più che il suo circo era tornato, lo scandalo attivo di sempre. Va dato atto a Baldini, Sabatini e Fenucci d’aver osato la soluzione più ovvia e, allo stesso tempo, la più assurda.

Si discute molto di cosa sia il carisma in un allenatore. Che cosa accomuna gente tanto diversa come Mourinho, Guardiola, Bielsa, Zeman, il Bearzot di un tempo? Basta ascoltare Francesco Totti quando parla di Zeman. C’è qualcosa di più lontano tra il mondo Totti e il mondo Zeman? Eppure. Una parola di Zeman, uomo Zen, ne vale cento di chiunque altro. Zeman è anche plusvalore tecnico e dunque economico. Con lui, se sapranno abbandonarsi, ragazzi ondivaghi o ancora “verdi” ma stracarichi di talento come Lamela su tutti, Bojan, Borini, Pjanic, lo stesso Osvaldo, aggiungo Lopez, Viviani, Bertolacci, Caprari, Tallo, Verre, Piscitella, i due gemelli Ricci, passeranno dalla potenza all’atto. Diventeranno dollaro sonante per la gioia non trascurabile dei bostoniani di là e dei banchieri di qua. Zeman è marketing applicato. Sono le conseguenze dell’amore. Chi meglio di lui, se l’impresa è il marchio Roma? Tutto da qui in poi parlerà di lui e con lui.

Zeman non è la facile suggestione ripescata in una bottega d’antiquariato. Non è una bella e vecchia favola consolatoria da raccontare nei momenti difficili. Zeman è un magnifico allenatore di oggi. Un presente ruggente, scaltro, capace di iniettare dosi di realismo nella sua folle vertigine e una feroce rivalsa dentro ne fanno, a 65 anni, un’arma micidiale. Hanno fatto bene Baldini e Sabatini a non ascoltare i dozzinali incartatori di salame all’ingrosso che spacciano una scelta così per bieco romanticismo al confine della demenza. Zeman che torna a Trigoria è pragmatismo allo stato puro. Lucidità da applausi. Zeman è la droga dei nostri anni migliori. Crea dipendenza, ma non fa male. Uno solo l’inconveniente. Tra lui e Sabatini, Trigoria diventerà una camera a gas. Dentro la stessa nuvola di fumo, i due si fumeranno e tossiranno addosso non meno di sessanta Marlboro al giorno. Sabatini fuma avidamente. Fuma rock. Si consumano, lui e la sigaretta, nello stesso falò. Zeman fuma lento, come Fred Buscaglione, fa cerchi di fumo e, tra una sigaretta e l’altra, canticchia Lucio Battisti o motivetti che inventa lì per lì. I loro polmoni gemono, ma le loro teste vanno a mille. Fratelli tabagisti, non ce la faranno mai a cantare l’Aida, ma a mettere insieme una grande Roma sì. La nuova Roma nasce dalle loro ceneri.


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