Sta succedendo tutto adesso, sotto i miei occhi accecati dal sole che sconquassa perfi no i computer e da quel ricciolino che sconquassa cuori più freddi del mio. Devo confessare che, quando gioca il ricciolino, che molti chiamano “divin codino” e altri Robertobaggio tutto attaccato per distinguerlo da Dino Baggio, il mio cuore va sempre in tilt. Ma stavolta ha ragione di fare le capriole, di schizzare fuori dal petto perché vorrebbe rincorrerlo e abbracciarlo. Sta succedendo a Boston, al Foxboro Stadium. Ci giocano soprattutto a football americano, ma in questo primo pomeriggio afoso e troppo umido sta ospitando un evento storico per noi. Lo demoliranno nel 2002 e sarà uno sfregio alla memoria del calcio, o almeno del nostro calcio. Su quelle zolle Roberto Baggio da Caldogno sta per impadronirsi del Mondiale che abbandonerà, fra le lacrime, solo all’ultimo atto. Siamo arrivati fin qui soff rendo, giocando male, a tratti malissimo e con una violenta polemica che ha portato alla rottura, anche se non ufficiale, fra Sacchi e, appunto, Roberto Baggio. Il gioco di Arrigo, quello che abbiamo ammirato negli anni del Milan, in Nazionale non si è mai affacciato. Peggio: nell’Italia non c’è proprio gioco. Contrariamente al vangelo sacchiano, è una squadra legata al suo fenomeno, al giocatore più atteso di questo Mondiale, ma oltre al gioco manca anche lui, il giocatore. L’Italia e Baggio non incantano nelle tre partite di qualificazione. Perdiamo la prima contro l’Irlanda al Giants Stadium e vinciamo, con un cuore grande così, la seconda contro la Norvegia, quando succede il fattaccio. Al 21’ del primo tempo viene espulso Pagliuca e Sacchi, per far entrare Marchegiani, decide di far uscire Baggio, che si volta verso la panchina e dice la famosa frase: «Ma questo è pazzo». Questo è Sacchi, naturalmente.
Il giorno dopo lo aspetto davanti agli spogliatoi della Pingry School, dove si allena l’Italia, nel verde umido e bollente del New Jersey, voglio capire, voglio sapere. Facciamo cento metri uno accanto all’altro, lo spazio che ci separa dallo spogliatoio al campo. Mi dice una cosa troppo intima perché la possa scrivere. Fuori sembra uno straccio, ma dentro è un vulcano a cui non basta eruttare parole. L’eruzione deve avvenire in campo, altrimenti non serve. Il mondo gli ha già assegnato un ruolo che non riesce a conquistare. Pareggiamo la terza partita con il Messico e ci qualifichiamo agli ottavi come terza classifi cata fra le migliori terze di ogni girone solo grazie alla Russia che ne fa 6 al Camerun.
La tribuna stampa del Foxboro è stretta e le facce intorno sono quanto meno perplesse. Giochiamo contro la Nigeria che si è qualificata come prima del suo girone insieme alla Bulgaria di Stoichkov e all’Argentina di Maradona (prima della squalifica) e poi di Batistuta. Quei giganti di ebano ci inquietano, noi abbiamo Benarrivo, Baggio, Signori, mica dei colossi, sul piano fisico siamo nettamente inferiori e se non si sveglia Baggino è la fine. La vigilia è stata agitata dal presidente della federazione nigeriana, tale Samson Emeka Omeruah, che ha trovato il modo di caricare l’ambiente con una provocazione. «Voi italiani siete famosi per la mafia e per la Fiat, non certo per il calcio», dice a Stefano Chioffi , inviato di questo giornale. Qualcuno, nel club Italia, lo prende sul serio, altri nemmeno lo considerano. Risuonano di più le parole di Sacchi: «Spero in una scintilla di Baggio, con lui al massimo cambierebbe tutta la musica». E c’è un’altra frase molto profetica del ct: «Mussi gioca perché mi garantisce dinamismo». Baggio è ottimista: «Ho una voglia matta di tornare a vincere, stavolta sparo tutto». Dobbiamo avere ancora un po’ di fiducia, dobbiamo crederci.
Ma quella fiducia, diciamo pure quella fede nel colore azzurro e nel calcio baggesco, si affievolisce dopo 26 minuti quando la Nigeria segna il suo gol con Amunike, mentre gli altri, quelli che oggi indossano la maglia bianca, stanno a guardare. E’ la fine, lo pensano tutti. Baggio non c’è, Oliseh che sta per passare alla Reggiana, non gli fa vedere palla. Dietro ballano, come si è visto in occasione del gol, e in mezzo Albertini non regge l’impatto col fisico e la forza dei nigeriani. Sacchi saltella sulla panchina come un grillo. Si vede già a casa, chiuso nella sua Fusignano. A metà ripresa tenta una soluzione lontanissima dal suo modo di pensare e mette dentro Zola, al posto di Signori, accanto a Baggio. Un altro piccoletto, un altro numero 10, ma di talento. Zola entra bene sul campo, solo che ci resta poco, meno di un quarto d’ora. Succede quando entra in area e subisce un fallo, sarebbe rigore, ma l’arbitro non fischia. Fischia un istante dopo quando Zola va a riprendersi la palla tra i piedi del nigeriano. Penso: «Ma guarda questo bischero che invece di darci il rigore, fischia un fallo contro di noi». Poi vedo lo stolto che si mette la mano in tasca: «Ma che fa? Lo ammonisce anche?». E appena si alza il cartellino rosso mando a quel paese Brizio Carter e tutti gli arbitri messicani. Zola si inginocchia, anzi, si accascia, le braccia incrociate sul petto, piange. Per assistere a un’ingiustizia del genere dovremo aspettare il Mondiale del 2002 e il famigerato Byron Moreno.
Sì, è finita. Manca un quarto d’ora, non possiamo farcela in 10. Ma in quel momento si accende qualcosa nella testa della squadra. Che prende ad attaccare. Dai, dai, dai. Dovrei anche scrivere, perché a Roma aspettano comunque un pezzaccio e per il fuso orario è maledettamente tardi per i giornali. Ma chi riesce a scrivere? L’Italia sale, la Nigeria si difende. Mancano due minuti alla fine e la prima profezia di Sacchi si avvera. Sulla destra scende Mussi, il terzino che Arrigo ha fatto giocare perché serviva il suo dinamismo. Viene giù come un siluro, l’attacco è velocissimo, salta un difensore, entra in area e vede Baggio, finalmente nel punto dove Baggio deve stare, fra il limite dell’area e il dischetto del rigore. Per Mussi è un sollievo scorgere quei riccioli che invocano il pallone. Ma l’area è piena di nigeriani e italiani, non basta calciare in porta, va trovato un angolo, un pertugio, una buchetta libera. Baggio è lì per questo, per la magìa. Tira, segna, esplode la tribuna stampa. Tutti, ma proprio tutti, capiscono che ai supplementari si materializzerà il miracolo. Quel gol farà discutere per anni Sacchi e i giornalisti italiani, che Arrigo continuerà a rimproverare per aver messo in risalto il gesto di Baggio più dello sforzo di una squadra che in 10 lottava e saliva tutta insieme. Ma una squadra che lotta e gioca con generosità si potrà sempre ritrovare su un campo di calcio, più difficile ritrovare un giocatore che, per fare gol, riduce la circonferenza di una palla da calcio a quella di una pallina da tennis, perché altrimenti non sarebbe mai passata in quel cespuglio di polpacci, stinchi e tacchetti. E’ la magia del calcio.
Arrivano i supplementari, ci sarebbe il tempo per raffreddarsi un po’, ma ormai la pressione è alle stelle. Quando si ricomincia i nigeriani sembrano impauriti. Giocheranno mezz’ora con un uomo in più, ma nessuno se ne accorgerà. Molti di noi pensano ai rigori (non potendo nemmeno immaginare cosa accadrà la prima e ultima volta che in questo Mondiale finiremo davvero ai rigori...), eppure l’Italia adesso corre. E gioca. E attacca. Sta per finire il primo tempo quando Baggio spedisce Benarrivo in area nigeriana e lì viene steso. Stavolta Brizio Carter non può esimersi, deve fischiare per forza. Fischia. Rigore. Sul dischetto si posa una palla d’acciaio, tocca a lui, tocca a Baggio. Cosa darei perché lo segnasse. E lo segna, perché questo è scritto nel destino dei campioni. Vedo Giancarlo Padovan, allora prima firma del Corriere della Sera, che salta sul tavolino e urla: «Andiamo in finale, andiamo in finale». Vedo Giuseppe Pistilli, prima firma del nostro giornale, che esulta, lui che ha uno stile british, sempre composto. C’è da impazzire. Baggio l’ho visto nascere come giocatore, nessuno mi ha emozionato come lui fin dalla partita del torneo di Viareggio contro l’Ocean Side di New York, quattro anni prima, il giorno della sua prima doppietta con la maglia viola, e ora sta trascinando l’Italia verso un orizzonte radioso.
Sbircio nelle pagelle di Luigi Ferrajolo, inviato del nostro giornale: «R. Baggio 9. Sembra che debba concludere la sua recita disastrosamente, quando a due minuti dalla fine ritrova uno di quei suoi tocchi vellutati, con cui guadagna i supplementari. Finalmente si scatena e torna il Pallone d’Oro che conosciamo». Negli spogliatoi, sono stravolte le facce dei giocatori come quelle dei giornalisti. Baggio non sta nella pelle, Sacchi nemmeno. Arrigo prova a sorridere: «Ero già sulle scalette dell’aereo quando Roberto mi ha preso per la giacchetta e mi ha tirato giù».