Senza rancori e senza superbia. Perché un campione non lo vedi più solo dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia, virtù care a un romanista d’eccezione come Francesco De Gregori. Un campione lo vedi anche dalla misura. Soprattutto in tempi in cui il calcio abiura idoli come Ronaldo con l'indifferenza cinica delle rivoluzioni. Forse per questo Paulo Dybala racconta la più grande sfida della sua carriera con le parole di un uomo normale, perché la vita e qualche dolore gli hanno insegnato una salutare umiltà.
Nelle sue scarpette fatate non ha sassolini da togliersi per la Juve, che a marzo lo ha scartato come si fa con un prodotto scaduto. Gli era già capitato due anni prima, quando, di ritorno dall'Argentina, Paratici lo aveva messo ad allenarsi a parte, salvo poi riconsegnarlo a Sarri dopo il mancato accordo con lo United. E lui aveva risposto confezionando il nono scudetto consecutivo dei bianconeri. Stavolta la ferita narcisistica non si è riaperta, perché la maturità è, in fondo, una giustapposizione di cicatrici spirituali.
Quest'uomo assennato promette che aiuterà la Roma a vincere, che è cosa sottilmente diversa dal promettere la vittoria. Pesa le parole perché sa di essere su un crocevia ultimativo: di qui c'è la gloria, di lì l'irrilevanza. Un settennato di grande calcio e 115 gol non gli garantiscono di imboccare l'uscita giusta. Ma tutto è in gioco. La consacrazione del top player coincide con la rivincita di una piazza per troppo tempo delusa. Il piccolo argentino e la grande Capitale vanno incontro allo stesso misterioso destino. Si può vincere senza essere la Juve o l'Inter. Si può brillare in Europa senza giocare la Champions. Basta crederci. Dybala alla fine ci ha creduto.
Un affidamento così incondizionato somiglia a una conversione. Non a caso ha richiesto due officianti speciali. Il primo è un tecnico dal magistero pastorale come Mourinho. Il secondo è un campione dal carisma inossidabile come Totti. La loro moral suasion è stata penetrante, continua e, alla fine, decisiva. Dybala indossa la 21 e veste la 10, perché, quale che sia il numero della maglia, tocca a lui raccogliere l'eredità sospesa del divino Pupone.
La cerimonia maestosa dell'Eur suggella un'incoronazione. La cornice neoclassicista e insieme futurista del Palazzo della civiltà del lavoro è una porta tra lo sport e lo spettacolo, tra la storia e l'ignoto. Da domani ogni tocco di palla del sublime argentino avrà qualcosa di sacrale. Se le parole hanno il dovere della misura, le mute magie del campo abbiano la libertà dell'eccesso.