La Dybalite è una malattia acuta dal volto efebico che s’insinua nelle vene come un affabile veleno fino al completo imbambolamento del soggetto colpito. Lo riconosci perché se ne sta genuflesso non davanti al capolavoro, come faceva banalmente Stendhal, ma nell’attesa stessa del capolavoro. Questo è da ieri il romanista dybalizzato. Rapito e genuflesso. In una parola, estasiato. Antidoti? Se ci sono, ignorarli e buttarli nel secchio.
Se questa è la malattia c’è una gran voglia di starsene malati un bel po’ e, tanto per cambiare, vaneggiando a piacimento. Assumere tonnellate di erba ipnotica. Il sinistro di Dybala è di per sé un potente allucinogeno. Roba rara. L’evoluzione calcistica di Omar Sivori. A piedi invertiti e stessa leggiadria danzante, Roby Baggio, stesso destino, ripudiati dalla Juve e felici altrove. Diego Armando Maradona a parte e il primo Recoba, un mancino così artistoide non si era visto da un pezzo in Italia. A Roma è passato quel genio di Momo Salah ma, appena stavamo lì per rendercene conto, ce l’hanno soffiato. Paulo Dybala è la divina ricompensa di tanto scippo. Paulo, come Paulo Roberto Falcao, l’altro divino. Siamo lì, sullo stesso podio dei sogni.
I Friedkin sono gli uomini dei sogni. Solo pensarlo, José Mourinho sulla panca della Roma, sembrava una bestemmia. Immaginarlo, Paulo Dybala con la maglia della Roma, un azzardo puerile. Le due cose insieme, bestemmia e azzardo, fanno il paradiso della Roma calcistica di oggi. Un paradiso in terra che comincia a essere pieno di odalische. Per cui vale la pena vivere e scrivere, piuttosto che morire. Tiago Pinto il braccio abilissimo dei due Texani, la cui stella da sceriffo e il cui cuore sono tutto meno che latta. Ghiaccio che si scioglie facilmente e diventa lava (bastano tre pullman assediati da una marea di folla in faccia al più stranito Colosseo di sempre). Ieri Mourinho, oggi Dybala, domani lo stadio e chissà. Già così, la proprietà più romanista di sempre. La più capace di ascoltare i muscoli cardiaci della città giallorossa. L’avranno studiato, Dan e Ryan, nelle università americane da cui provengono, tra Washington e Dallas?
Ma tutto questo, senza José Mourinho, non sarebbe stato possibile. Senza José che accetta un anno fa l’assurdità (con la sua storia, i suoi trofei, il suo presente ancora carico di ambizioni) di vedersi sulla panca della Roma. José che si cala come il più empatico dei pascià in una città fatta per lui, per le sue natiche, il suo cuore e ora anche la sua testa. José che vince al primo anno. Josè che sa come si usa il cellulare. Sa come pescare dalla sua agenda, un ricco mare pescoso. Telefona a Tammy Abraham, che proprio non gli passava per la testa la Roma, telefona a Nemanja Matic, un suo soldato. Telefona a Celik, a tanti altri. Telefona soprattutto a Paulo Dybala. Una, due, non so quante telefonate. L’ultima, quella decisiva, Josè usa la più maliarda delle sue voci e Dybala cede di schianto. José è ancora lì che zufola e Dybala è già in volo per il Portogallo scortato dalla sua nuova ombra, Tiago Pinto.
Non ci era sfuggito quella sera all’Olimpico. Alla fine di un Roma-Juventus da incubo, José Mourinho avvicina Dybala, il più illuminato dei suoi carnefici di serata, e gli soffia in un orecchio: “Mi piacerebbe tanto un giorno allenare un talento come te…”. Dybala sorrise, non sappiamo cosa gli rispose. A occhio e croce non fu un “vaffanculo José, sei fuori di testa”. Una settimana dopo, il 15 gennaio, scriviamo su questo giornale: “E se dicessimo Paulo Dybala? Fantasia che più audace non si può? Sogno di una mente malata?...”. Sembrava il classico espediente di un giornale per pettinare chimere in giorni di vacche magre. Sta di fatto che Mou è arrivato e ora è arrivata anche la Joya. Lo sciamano di Setubal, quella sera di gennaio, aveva forse iniettato la prima tentazione nell’argentino di Laguna Larga, provincia di Cordoba, la terra dove il calcio è bellezza o non è. Da allora José, l’uomo del pressing infernale, non ha dato pace a se stesso, ai Friedkin, a Tiago Pinto e a Paul Dybala, fino a che non ha ottenuto quello che voleva.
I sette anni alla Juve? Sette nani. Polvere del tempo. Forse mai esistiti. Dybala come Dylan, conturbanti menestrelli. Oltre la maglia che indossano, a meno che la maglia non coincida con la pelle (minaccia sempre reale a Roma9. Come Sivori e come Baggio, Dybala destinato a scatenare passioni estetiche. La grazia mozartiana applicata al calcio, piedi fatati che inventano storie finalmente degne di essere raccontate. Omar era un genio malvagio, Roby un delicato e sinistrato putto più volte risorto dalle ceneri delle sue cartilagini. Paulo è la fragilità apparente del secondo, ma anche l’orgoglio luciferino del primo. Di ragioni ne ha tante per attivarlo. Sempre stato nel mirino degli sparlatori, “giocatore incompiuto, discontinuo, poco leader in campo e fuori”, “un bel barboncino da salotto”, “talento difficile da interpretare, da collocare, da disciplinare”. “Grande talento, ma non ha corpo, come certi vini…”. La bellezza calcistica di Paulo è proprio nella sua assenza di corpo, nel suo essere immateriale ma micidiale alla tastiera. Dybala e quelli come lui. Senza i quali il calcio è una mischia senza senso di anatre zoppe.
La Joya e la Roma. La migliore scelta possibile per entrambi. Il nuovo divino Paulo, probabile futuro re di Roma, deve sapere cose che certamente già sa se ha fatto questa scelta. Che vincere a Roma, con la Roma, non è la stessa cosa in nessun’altra parte del pianeta. Il resto è tutto nella testa del ragazzo. Nella sua disposizione a una vita da eroe piuttosto che da comprimario. Solo a Roma, nella Roma, cioè adesso, scoprirà realmente cosa vuol dir essere amati. Fino ad oggi ha solo creduto di saperlo. E, intanto, aspettando quello che sarà, provate solo a immaginare la scena: Francesco in persona che consegna la numero 10 a Paulo. A 28 anni, finalmente libero di diventare Dybala, non somigliando altro che a Dybala. Immaginate e godete.