Sono giorni assai pesanti per la Roma, tra i più complicati della gestione Friedkin. Dopo le dimissioni di Lina Souloukou - indotte?, spontanee?, che importa ormai - e in attesa che Dan e Ryan esprimano un nuovo amministratore di Trigoria (e possibilmente anche un dirigente-cuscinetto che sappia di calcio tra loro e la squadra) siamo al vuoto di potere. Incalcolabili i danni, se si protrarrà a lungo.
Giovedì sera, assorbita la sconfitta con l’“irresistibile” Elfsborg, Mario Hermoso caduto dal pero ha fatto sapere che «c’è troppa negatività attorno alla Roma». Beh, perlomeno qualcosa c’è, è qualcuno che manca: se uno s’impegna può star male ovunque, diceva il mio indimenticabile concittadino Freak Antoni.
Arrivo a Juric, che è sostanzialmente abbandonato a sé stesso: Ivan ha l’esperienza necessaria per affrontare tante situazioni, questa però è superiore alle sue forze, al suo coraggio, allo spirito di combattente, visto che è stato chiamato a sostituire uno dei romanisti più amati dalla piazza e che - attenzione - hanno fatto subito fuori chi l’aveva portato. Lina, appunto.
In difficoltà si ritrova perfino il ds Ghisolfi, al quale la scorsa primavera si era interessato anche il Monaco: temo che stia ancora cercando di capire dove l’hanno catapultato gli algoritmi di Gould: la Roma non è comoda, né per tutti.
Le fila della comunicazione sono tenute da Gianni Castaldi, professionista amabilissimo, ma anch’egli terribilmente solo.
Una società che punta a un posto in Champions non può ritrovarsi in queste condizioni (né a ottobre, né a gennaio, né mai), perché tutte le figure che la rappresentano fisicamente in città sono condannate all’impopolarità e alla scalata dell’Everest senza gli sherpa.
Chi fa la Roma adesso? Qualcuno è in grado di proteggere e facilitare quotidianamente il compito a Juric e Ghisolfi?
La comunicazione con l’esterno è essenziale eppure c’è chi non l’ha ancora capito o non se ne cura affatto: nei primi due anni e mezzo se n’era occupato Mourinho, negli ultimi mesi De Rossi. Juric sa lavorare bene sul campo, ma non è precisamente un tipo empatico e comunque viene guardato con eccessiva diffidenza tanto dal pubblico quanto dai media locali.
Il senso del vuoto dirigenziale lo si è avvertito anche durante la conferenza della vigilia di Elfsborg-Roma. «La squadra non voleva l’esonero di De Rossi» sono state le parole di Lorenzo Pellegrini. «Non sono uno da pagliacciate, ma sono abituato a dire la verità, sono successe anche altre cose per cui non è stata richiesta la mia verità. Ho tanta stima per De Rossi e il suo staff, sono un grande gruppo e ci stavano dando tanto. Adesso si va avanti perché la Roma è più importante di tutti noi, siamo stati fortunati a trovare un uomo (Juric, nda) che ha saputo cambiare il chip nelle nostre menti trasformando la tristezza del momento e far tornare le cose sulla giusta via».
Mai sentito, prima di una partita, un capitano esprimersi in quel modo nei confronti dell’allenatore cacciato al quale è subentrato chi in quel momento gli sedeva accanto.
Pur comprendendo le ottime ragioni di Pellegrini, che non ha affatto contribuito al licenziamento di De Rossi e paga ingiustamente col dissenso dell’Olimpico, ho trovato imbarazzante la scena.
Soprattutto per Juric e la società.