Altri hanno sbagliato davanti alle sue idee che sembravano di metallo rigido e invece erano di carta e inchiostro, studiate nero su bianco e frutto di ricerche scientifiche, quelle sì all’avanguardia. Rocca si è voluto laureare, a L’Aquila, prima di diventare allenatore, a differenza di altri che andavano a orecchio e mentre il tempo gli passava sopra, o accanto, ha continuato a prepararsi per un futuro senza confini. Di quelli ne aveva già scavalcati abbastanza, per amore o per dovere, e non è uno che sperimenti sugli altri la resistenza al dolore. Allenatore, allena te stesso: compie settant’anni e, ci raccontano, se vuole piegarsi a portafogli lo fa e appoggia interamente a terra le palme delle mani.
Ma, tornando agli inizi: Francesco Rocca è impermeabile al tempo non perché appare tuttora uguale a sé stesso, non perché non abbia avuto la sua parte di pene (accidenti se l’ha avuta), ma perché ancora oggi appena senti nominare Francesco Rocca non pensi minimamente a un presidente di regione bensì a un ragazzino dai capelli radi e gli occhi oscuri e brillanti che solca in lunghezza il campo. Da una linea di fondo a quella opposta, e mette la palla in mezzo senza guardare con il destro, oppure sterza con il sinistro e crossa o cerca l’appoggio. Da entrambe le parti, dipende da che cosa serve in quel momento alla squadra. Alla Roma, dove da attaccante si era evoluto in rivoluzionario terzino, lo mettevano spesso a sinistra. In Nazionale il dottor Bernardini, altra testa da farci a capocciate, lo incasellava a destra per fargli risparmiare un tempo di gioco, pure se all’epoca non si diceva niente del genere.
Tanto per lui era uguale. Accendeva le gambe, buttava il pallone avanti e gli correva dietro. Al traguardo di solito non c’era più nessuno da saltare. In mezzo all’area Pierino Prati aspettava e Giancarlo De Sisti sorvegliava la posizione. Se gli ordinavano di marcare qualcuno, Rocca portava la consegna a livelli da ordinanza restrittiva. Contro la Polonia si tenne Grzegorz Lato appiccicato alla spalla e l’ingenuo pensò di alleggerire la pressione fingendo di andare a chiedere istruzioni dalla panchina.
«Avete preso la targa della motocicletta?», dice Giovanni Toschi detto Topolino, ala del Cesena di Bersellini, dopo essere stato investito tre o quattro volte. Dal giorno dopo, è quasi Natale, Francesco Rocca di San Vito Romano, figlio del popolo, fisico curato in proprio e piedi ammorbiditi nel Bettini Quadraro, società storica, diventa Kawasaki. All’epoca non c’erano Ducati che tenessero, le moto erano giapponesi o non erano.
Anni Settanta, appunto. Ne bastarono due perché Rocca diventasse l’unico Rocca memorabile, perché segnasse il suo solo gol in Nazionale, agli Stati Uniti nel Torneo del Bicentenario, e persino gli olandesi di Cruijff e Neeskens per fermarlo non trovavano di meglio che camminargli sui testicoli. E di anni ne bastarono tre perché il tempo irrompesse con il suo carico di errori. Com’era cominciato, finì: contro il Cesena. Il 10 ottobre 1976, un incontro di gioco neanche infame con Giorgio Bittolo, un dolore che uno come Rocca non nota.
Fecero seguito cinque operazioni, quattro ritorni in campo, notti senza sonno e risvegli senza gioia, specialisti consultati in segreto, notizie su un addio francamente esagerate, la notizia vera dell’addio vero data da lui stesso, il 3 agosto 1981.
Franco Peccenini, l’altro estremo difensivo della filastrocca della Roma da terzo posto 1974/75 (Conti, Peccenini, Rocca eccetera) una volta diede voce a un malinconico malessere nei confronti del club: Io e Rocca abbiamo dato le ginocchia per questa squadra, e chi se ne ricorda? Probabilmente ha ragione, però Rocca è stato uno dei primi undici a finire nella Hall of Fame giallorossa e ha ringraziato del riconoscimento con un giro di campo in auto. La settimana scorsa al centro sportivo De Rossi lo ha presentato alla squadra come «una leggenda, il simbolo di ciò che dovreste essere voi». Quanto alla federazione, gli ha affidato una per una tutte le giovanili o quasi e il ruolo di osservatore per la Nazionale maggiore. Un giorno gli fecero notare che non avrebbe dovuto prendere quattro gol dallo Zambia. Proprio a lui che perdona tutti tranne sé stesso, non dimentica anche se si sente dimenticato. Si è chiesto più di una volta perché non lo chiamassero ad allenare in Serie A, visto che nessuno dei suoi ragazzi aveva mai sofferto di gravi infortuni e visto che lui non sopportava di vedere giocatori battere la fiacca ed evitare di sacrificarsi. Tutto qua il suo limite: non accorgersi che certe volte la domanda contiene la risposta.