Roma, scopriamo la trama dei Friedkin

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Marco Evangelisti
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Gente con la passione e il mestiere del cinema, i Friedkin sanno dove piazzare un colpo di scena. Ma anche un crescendo di suspense, un espediente narrativo, un MacGuffin come lo chiamava Hitchcock, una valigetta con l’interno luminescente. O una nuvola di sottile inquietudine. O tutto questo insieme come in “Parasite”, il film che ha sconvolto le sicurezze culturali della liturgica giuria degli Oscar. Fanno così anche alla Roma, quindi. Una volta Mourinho, un’altra Dybala, quella successiva Lukaku. Ovviamente, a forza di stupire ti serri in un angolo e rischi di sbattere contro aspettative del pubblico sempre più frastagliate. Chiedere a M. Night Shyamalan, già che siamo in argomento. 

Il vantaggio è che il calcio offre vie di fuga inesauribili. Dunque questa estate di lunghissima e sudata attesa si fa di colpo veloce e ritemprante. De Rossi predicava nel deserto di un ritiro senza titolari, qualcuno, noi per primi, cominciava a innervosirsi e la nuvola di sottile inquietudine andava solidificandosi in una cappa di malumore. Al momento giusto, quando la tensione era diventata insopportabile, sono arrivati l’accelerazione sullo stadio, la conclusione del braccio di ferro per Soulé, gli investimenti qua e là anche nei posti meno frequentati dell’organico, le rassicurazioni nei fatti per l’allenatore, persino la puntata alta su Dovbyk, uno dei nomi più eccitanti tra quelli che ancora non sono usciti dal recinto della ragionevolezza finanziaria. Tutto sommato, abbiamo assistito a colpi di scena peggiori e, anche se il guizzo di coda non dovesse andare a segno, il tentativo significa che la Roma di Souloukou, Ghisolfi e dei produttori (e venditori di auto e imprenditori del turismo eccetera) statunitensi non è né impoverita né rassegnata. 
Salvate il sold out Ryan, perché poi sarà lui a salvare la situazione. Non passa da Roma per caso. Lui e Dan hanno l’aria di pianificare a scadenza ampia e di sapere che cosa va fatto e di possedere la misura industriale per farlo nel modo giusto. Se sono arrivati a cento milioni di investimenti in calciatori e non hanno ancora finito - pure quando arriverà un centravanti della statura di Dovbyk o simile, la squadra sarà lontana dall’essere completa - non è per benevolenza eroica o per gusto della composizione artistica. Lo fanno perché convinti che la Roma sia in grado di trasformarsi in un ingranaggio portante della loro struttura di affari globali. Perché le prospettive di sviluppo che hanno individuato all’orizzonte del club sono vaste e forse coincidono con le aspettative dei tifosi. 
Può sorprendere, ma neppure tanto, che stiano seguendo un percorso apparentemente logico da un punto di vista sportivo. Così logico che la Roma negli ultimi tempi se n’era tenuta ben lontana. Il consolidamento di un’impalcatura societaria compatta, fatta di organici dimagriti e dirigenti dalle deleghe chiare. Un allenatore giovane la cui dedizione alla causa non è discutibile, messo al centro di una strategia di un certo respiro. La costruzione di una rosa che possa promettere competitività attraverso una dose di esperienza e qualità tecniche riconosciute mista a giovani da rintracciare, scegliere, addestrare, abituare alla pressione e alla competizione di alto livello. La riscoperta dello scouting, la voglia di arrivare prima degli altri su un talento, una promessa, un bocciolo di campione. Banalità progettuali delle quali sembrava essersi perso il gusto dalle parti della Roma. È passato il tempo, c’è voluta pazienza, ma anche Kubrick faceva ripetere le scene cento volte, fino allo svenimento degli attori. Il viaggio della Roma è sempre un’odissea. Questa volta almeno c’è un certo shining. 


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