Stadio Roma, le radici di un sogno

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Marco Evangelisti
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Il calcio è geometrico, razionale e superstizioso. Sarebbe consigliabile attenersi alle sane tradizioni portate avanti da quei maestri di vita che sono gli allenatori e non parlare di giocatori di altre squadre, finché non firmano per la tua. Allo stesso modo, commentare la nascita di uno stadio appena schizzato su carta, al massimo modellato in realtà virtuale, incarnato in una manciata di pixel, ologramma mentale consolidatosi in una stretta di mano tra sindaco e vicepresidente, è saggio come salutare Wolverine con una pacca sulla spalla mentre è distratto.
A Roma, poi. Dove qualche lezione sulla pazienza e sulla condizione umana dovremmo averla imparata. Nei secoli e nei dodici anni passati da quando James Pallotta affidò a una ditta specializzatissima la scelta del sito più adatto tra ottanta possibili aree e nacque il progetto Tor di Valle, in seguito naufragato tra scogli pretestuosi, cumuli di sabbia giuridici, banchi di nebbia populista. Vero: adesso abbiamo il felice intreccio storico tra una giunta open to prospettiva e dall’orizzonte temporale ancora abbastanza ampio; e una proprietà che nonostante le voci e gli anatemi sembra convinta di essere qui per restare, nelle prossime stagioni e, agli dei piacendo, nella memoria. Ciò non toglie che ne abbiamo viste troppe e di conseguenza sappiamo bene che sul percorso apparentemente piatto di questo nuovo tentativo di stadio si abbatteranno se non i raggi di un’invasione aliena - la realtà supera spesso il luogo comune - certamente esposti, ricorsi, scioperi della fame, ritrovamenti di cavatappi antichi, periodi dell’amore di salamandre protette, infiorate di dalie selvatiche, sovrintendenze annoiate.
Eppure vogliamo fare un’eccezione e immaginare un avvenire oltre tutto questo, un progetto costruttivo che finalmente arriva in porto, una prima pietra e addirittura un’ultima, un’inaugurazione e un impianto vero, in carne e pietra e plastica, e giocatori veri che si esibiscono sotto bandiere vere. Forse stavolta riusciremo a vederli, magari proprio nel 2027 indicato dalla road map originaria, anche se probabilmente sperare in una data tanto vicina significa avere esagerato ieri con i brindisi. C’è di buono che, come d’abitudine per Dan Friedkin, sull’argomento non salta fuori una chiacchiera al giorno: viene annunciato quello che c’è da annunciare allorché succede qualcosa. Di solito è segno positivo e potrebbe accadere che di questo passo si superi il punto da cui non si torna indietro prima che il lato oscuro della forza si risvegli.
Il nuovo stadio della Roma, che tale resterà qualunque sia la struttura proprietaria scelta, non si circonderà di un intero quartiere come la prima versione pallottiana (ammesso che fosse un male) né turberà la placida ed eterna linea del profilo urbano di Roma né spezzerà armoniosi orizzonti come quelli che si godevano dalle mitiche tribune di Tor di Valle. Sarà soltanto una realizzazione concreta, una piccola grande opera dentro una città oggi inchiodata dall’attesa del Giubileo, strangolata dai cantieri, immobilizzata dalla chiusura delle stazioni della metro e dall’anemia dei mezzi pubblici. Dove tutto è rincorsa ed emergenza e niente progresso e normalità. Che scelse a suo tempo la strada del gran rifiuto dell’Olimpiade e adesso si vede offerto un miliardo d’investimento come premio di consolazione. Ma possiamo smetterla con le giustificazioni sociologiche. Lo stadio della Roma sarà quello che deve essere, un allargamento dello spazio vitale del club, un arricchimento più che sensibile per il budget (almeno 60 milioni all’anno la prima brutale valutazione), una lucidata alla visibilità nazionale e internazionale della Roma, un punto di partenza per la scalata ai vertici. Averlo non è una condizione sufficiente, necessaria sì. Noterete che alla fine abbiamo rinunciato a condizionali e congiuntivi, anche se ieri non eravamo presenti ai brindisi.


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