Sessantun anni il prossimo 26 gennaio, da 45 nel calcio, da 23 in panchina, 1.116 partite e 26 titoli, dentro ci sono tutti i campionati e tutte le coppe, e una passione e un entusiasmo tali da spingere José Mourinho a inginocchiarsi al gol che poteva dargli la 694esima vittoria in carriera. In un finale, non in una finale.
E c’è ancora gente che si chiede come mai i tifosi della Roma riempiano lo stadio da 38 partite consecutive, 37 gli esauriti per colpa di 100 biglietti invenduti col Frosinone. In totale, 2 milioni e 400mila presenze.
La risposta è semplice, la fornì per primo, tanti anni fa, un filosofo inglese, Alan Wilson Watts: «Questo è il vero segreto della vita: essere completamente impegnato con quello che si sta facendo qui e ora. E invece di chiamarlo lavoro, rendersi conto che è un gioco».
Peccato che qualcuno non l’abbia capito, o non l’abbia voluto capire, al punto da mettere in discussione la sua panchina poche settimane fa. C’è chi parla di gelosia, alimentata dall’eccessiva attenzione e centralità conquistate dallo Special. E io che scioccamente pensavo che il sogno di un grande presidente fosse proprio quello di trovare un allenatore capace di fondere risultati, squadra, tifosi e città in un corpo solo.