Da oggi Piazza Affari perde la Roma, avendo il gruppo Friedkin completato l’acquisizione totalitaria delle azioni. Per il mercato non è una perdita rilevante perché il flottante, cioè la quota di azioni scambiabili, era ormai inesistente e il volume di scambi quasi azzerato. Si chiude un’era iniziata in un’epoca storica diversa dall’attuale, il 23 maggio 2000. Presidente era Franco Sensi, capitano Francesco Totti, allenatore Fabio Capello quando la Roma collocò 13 milioni di azioni sul mercato (il 29% del capitale) a 5,50 euro. Un ipotetico azionista che ne abbia tenuto i titoli fino all’Offerta Pubblica di Acquisto del gruppo americano a (34 centesimi) ha perso il 94%.
Da oggi il club appartiene interamente alla Romulus and Remus Investment, holding attraverso cui Friedkin ha lanciato l’offerta. La società perde lo status di quotata e molti obblighi verranno meno, consentendo all’azionista una gestione molto più agile. Il primo vantaggio del delisting consiste nel risparmio di costi: il club non sarà più obbligato ad avere comitati interni a cui partecipano amministratori indipendenti che vanno remunerati anche per la partecipazione al CdA e sostiene costi più elevati per la revisione. Non certo risparmi decisivi, quantificabili in qualche milione e certamente non la ragione principale del delisting, anche perché il riacquisto delle quote ha già comportato costi superiori.
Il vantaggio principale è di non dovere più sottostare alle complesse procedure necessarie quando si rende necessario ricapitalizzare una società quotata: convocare un’assemblea straordinaria di cui va data notizia pubblica, redigere un prospetto, incaricare una banca collocatrice, offrire i titoli in opzione agli azionisti di minoranza, vendere sul mercato i diritti inoptati. Una procedura che richiede qualche mese.
Lo status di quotata obbliga poi a rivelare al mercato molte informazioni che non sempre i gruppi di controllo hanno interesse a divulgare perché finiscono per offrire notizie utili ai concorrenti, per quanto la pubblicistica richiesta ai club di Serie A sia già abbastanza ampia.
Negli anni ’90 la Borsa sembrava la terra promessa dei club più ambiziosi. La Roma fu la prima in Italia a percorrerne la strada ma l’esempio fu seguito dalla Lazio di Cragnotti e dalla Juve di Giraudo. Il mercato dei capitali sembrava la strada più moderna e interessante per allargare la platea degli azionisti, raccogliere risorse esterne alla cerchia della proprietà familiare, finanziare una crescita in quegli anni stimolata soprattutto dalla lievitazione del valore dei diritti tv. Non è forse un caso che l’estate 2001 sia ancora oggi ricordata per la mole di operazioni sensazionali: Zidane al Real per 150 miliardi e Inzaghi al Milan per 74, soldi subito investiti dalla Juve su Buffon, Thuram e Nedved. La Roma aveva vinto lo scudetto, era nella élite competitiva della Serie A e acquistava la promessa Cassano per 50 miliardi di lire mentre la Lazio investiva su Stam e Mendieta.
Anche in Europa la quotazione sembrava la nuova frontiera del calcio ma la moda è poi tramontata e oggi rimangono pochissimi club quotati: Lione, Borussia Dortmund, Ajax, Porto, Manchester United e pochi altri.
Sospinta dalla globalizzazione, la crescita dei ricavi rendeva più costoso il ricorso ai capitali azionari, mentre oggi le condizioni finanziarie di molti club e le mediocri performance finanziarie dei titoli calcistici, rendono desueto lo status di quotata perciò l’attrattività di nuovi collocamenti resta bassa. La Juve, ad esempio, continua a macinare perdite imponenti e viene davvero da chiedersi perché gli azionisti di minoranza siano disposti a partecipare al finanziamento di un business in disequilibrio strutturale. L’avvento degli investitori specializzati, soprattutto americani, dimostra che il calcio è uno sport per azionisti privati. Per i piccoli, l’acquisto di azioni diventa un gesto affettivo, una forma di partecipazione alla vita del club, paragonabile all’abbonamento o all’acquisto di magliette e gadget. Per alcuni, l’annuale assemblea degli azionisti diventa un appuntamento immancabile in cui rivolgere direttamente alla dirigenza domande impertinenti, guadagnando qualche minuto di effi mera visibilità. Nel complesso, il senso finanziario dell’investimento è del tutto mancante e la strada del delisting appare comprensibile.