Diciannove anni fa batté il Celtic in finale - 3 a 2 ai supplementari - e consegnò al Porto la coppa Uefa: si chiamava ancora così. L’anno seguente, altra finale e altra vittoria di Mourinho, 3 a 0 al Monaco. Il Porto si prese anche la Champions: nel bel mezzo della festa José salutò la compagnia per trasferirsi al Chelsea di Abramovic.
Ventidue maggio 2010, terza finale e terzo successo personale: con l’Inter, 2-0 al Bayern. Triplete completato: l’abbraccio a Moratti, i complimenti ai giocatori, un altro abbraccio (a Materazzi) ripreso dalle telecamere fuori dallo stadio, l’auto col motore acceso, addio e grazie. I più grandi lasciano da vincenti. A Madrid lo aspettava Florentino. Ventiquattro maggio 2017, Solna, sfida senza appello dell’Europa League, quarta finale seria del portoghese - le Supercoppe sono atti unici - e quarta impresa: Manchester United-Ajax 2 a 0, nella formazione inglese Smalling e Mkhitaryan, oltre a Pogba e Darmian.
Venticinque maggio 2022, oggi, Tirana ooooh. E a Roma si respira l’atmosfera della vigilia di molto più di una finale internazionale, che è anche l’unica nella quale è rappresentato il calcio italiano.
La quinta di Mourinho può trasformarsi in una sinfonia della passione: un numero imprecisato di tifosi in Albania, altrettanti in un antico teatro romano, 50mila all’Olimpico per assistere alla partita tutti insieme, come se si giocasse in più luoghi del cuore.
La Conference non è la Champions, certo. Ma le emozioni vanno rispettate, sempre. Come ogni finale. L’importanza di questa coppa dal nome orribile è peraltro direttamente proporzionale al numero di non romanisti che tentano di ridurla a Trofeo Birra Moretti e lo dico con tutto il rispetto per il luppolo e i suoi derivati e produttori. Più se ne parla male, a Gufolandia, e più ha valore.
Quando un anno fa, sempre di maggio, questo giornale titolò in prima pagina “Daje Mou” non si aspettava certo che José potesse avvicinare la Roma allo scudetto o alla zona Champions. Superato il primo, indimenticabile momento di stupore, procedemmo per sensazioni, promesse senza fine, speranze doppie: dalla parte opposta era arrivato Sarri, il maestro del bel gioco, e insomma la capitale si era appropriata di allenatori affascinanti.
Alla fine Sarri quinto e Mou sesto, Lazio e Roma in Euroleague. José ha però compiuto un miracolo in più, andando oltre: ha allungato la stagione dell’entusiasmo, le ha dato un senso compiuto, è stato più forte delle debolezze della squadra e ha stregato la tifoseria, capace di applaudire perfino un pareggio con una retrocessa per di più in inferiorità numerica. Non solo. Ha tirato fuori Totti dalla tenda in cui s’era rinchiuso, rifugiato, come Achille, a stemperare delusione e rabbia, per trasformarsi in ambasciatore di una nuova Roma che vuole, può e deve trovare un altro Totti ed è proprio lui che offre sorridente a Dybala la sua preziosa e santa Numero Dieci. Vuoi mettere quanti milioncioni vale, una favola così, per gli americani di Roma?
Il nostro “Grazie Mou” ci sta tutto. Ha fatto vivere a un popolo che da 5.114 giorni non solleva un trofeo il gusto forte del tentativo. Quello stesso popolo abbiamo seguito in Albania, portando il giornale a Tirana attraverso la collaborazione con Panorama Sport, il quotidiano sportivo del Paese. Insomma, abbiamo accorciato il confine tra due momenti. Il primo è l’attesa.