Non sappiamo se questa sera a Tirana l’uomo verserà lacrime e che lacrime, eventualmente, saranno. Non sappiamo nemmeno se Mou, mai così Ave, sia un sognatore. Direi di no, a occhio e croce. Forse, non lo è mai stato. Di sicuro, ha smesso di esserlo, non aveva più bisogno di esserlo, da quando ha cominciato con metodica e feroce puntualità a realizzarli i suoi sogni. Uno ad uno. Molti anni fa, il primo. Sulla panchina del Porto.
Anche fosse, non sarebbe mai arrivato, neppure nel più sfrenato e impudico dei sogni, anche dopo un party a base di peyote e mescalina, a immaginarsi una notte di fine maggio nello stadio di una città sconosciuta a giocarsi e, forse, chi sa, vincere un titolo sconosciuto sulla panchina della Roma, un nome così eclatante nella storia per un club così povero nella bacheca. Un’allucinazione? Sì. Il fattaccio meraviglioso è che l’allucinazione si è incarnata. È diventata realtà. Ogni tanto accade. Tutto questo sta accadendo, in buona parte è accaduto. L’esito non lo sappiamo, sta già scritto in qualche scrigno in una dimensione parallela del tempo. E tutti noi, comuni mortali, dovremo spasimare fino all’ultimo secondo per conoscerlo.
C’è un solo modo, da giallorossi, Pellegrini, Smalling e compagni, per spedirsi con tutta la leggerezza del caso questa sera nel cuore hot della storia e dell’Air Albania Stadium: essere consapevoli che l’esito più importante c’è già stato. È alle spalle. E non è la finale di una coppa appena venuta al mondo. È la voglia, ritornata gigantesca, di sentirsi parte, forse come solo nell’innocenza del bianco e nero, delle ciriole con la frittata avvolte nella carta argentata da donne che non s’imbarazzavano di essere mogli, madre, sorelle, a vantaggio di uomini che volevano darsi una volta a settimana la felicità di tornare bambini.
È cambiato il mondo, sono svanite le ciriole, ma rigurgiti forti del volersi sentire parte di qualcosa più grande di noi restano. Non sarà mai troppo tardi per capire che questo non è un festoso contorno, questo è il piatto, questa è l’essenza. E vale più di cento trofei. Qualunque cosa stasera, sarà bella o brutta, ma si sgonfierà a breve nella macina del tempo. Resterà memorabile il modo in cui si è arrivati qui, una notte di fine maggio, nell’improbabile, bellissima Tirana. Andate in campo così, con questa idea, Lorenzo e compagni, e sarà tutto più facile.
Josè Mourinho è stato la miccia. Questa volta ha sbalordito anche se stesso, lui che ha un’opinione smisurata di se stesso. Lui, chiamatelo come volete, a seconda delle vostre spicciole simpatie o avversioni, sciamano, manipolatore, genio, pagliaccio, narciso, incantatore. Di fatto, la sua parola, il suo modo di stare nella pelle della Roma, dal primo giorno, ha scatenato l’incendio. Mourinho somiglia alla statua di Augusto. Ma la sua storia somiglia a quella di Nerone, alla sua leggenda. Suona la lira, nel suo caso il flauto, mentre la città brucia. Ma è un fuoco che scalda, che divora sì, ma non fa male.
Sono state le lacrime, la svolta. Eh sì, perché Josè ha già pianto, quella notte all’Olimpico del Leicester. Beccato dalle telecamere. La finzione di un grande attore? Anche ammesso, dategli l’Oscar come si fa con i grandi attori che sono sinceri nella finzione. Le lacrime di Josè che si commuove per la finale di un trofeo che non vale mezzo capitolo del suo romanzo di uomo vincente dimostrano la complessità del personaggio e confermano i limiti dei suoi detrattori. Non capaci o non liberi di volerlo di raccontare per quello che è, l’uomo, una combinazione abbastanza unica di tutta la chimica che fa la storia di un uomo. La lucidità del cranio e l’emotività del muscolo che per comodità chiamiamo cuore. Ha pianto perché commosso dalla propria grandezza? Anche fosse, non cambia di una virgola il concetto. La sua è una grandezza contagiosa. Una grandezza che ha scatenato altre grandezze.
Ora tocca ai giocatori manifestarsi. Quanto profondamente contagiati anche loro dallo sciamano e dal popolo che lo ama? Lo sapremo tra poche ore.