Tutti cercano la persona speciale, Mourinho si preoccupa di esserlo sempre. Vale la battuta consegnata alla stampa subito dopo il pareggio-qualificazione col Vitesse: «Noi pensiamo a recuperare, Sarri fuma sigaretta». Così come la risposta negata a Zeman che sul nostro giornale l’aveva in qualche modo “ridotto”: «Io ho vinto 25 titoli, lui due serie B, non rispondo».
Quando c’è di mezzo Mou, le parole dicono una cosa e i fatti raramente la tradiscono. Per questo si sente (ed è) davvero “uno a parte”. La sua singolare ascensione romana, sostenuta fin dal primo giorno - e anche nei momenti difficili - dalla tifoseria, che l’ha eletto a unica guida, ha trovato proprio nella partita più sentita dell’anno una sorta di sublimazione.
Speciale, o diversamente normale, Mou lo è stato senz’altro ieri pomeriggio: nelle scelte e nel prodotto delle sue decisioni. Lui che mette i valori tecnici e la personalità dei giocatori davanti al resto, a tutto il resto, aveva fatto il possibile per recuperare in qualche modo Lorenzo Pellegrini, che nelle ore precedenti era stato male. E Pellegrini l’ha premiato. Inoltre ha dato di nuovo fiducia ai vent’anni di Nicola Zalewski, giusto per ricordare ai Friedkin, al pubblico e ai media che dal mercato aveva ricevuto Viña e Maitland-Niles. Ma, soprattutto, ha lasciato in panchina l’attesissimo Nicolò Zaniolo per riportare sulla trequarti Mkhitaryan e rendere più solido e protettivo il centrocampo con Cristante. Ha un senso perfino la continua rinuncia a Veretout, la scorsa stagione decisivo: il francese non è tranquillo, ha perso la serenità da quando sono sensibilmente peggiorati (un eufemismo) i suoi rapporti con chi l’assiste.
Mou è l’immagine di sé anche quando la sua parte dell’Olimpico comincia a irridere i laziali con gli olé e lui pretende che il coro si esaurisca in fretta perché sul campo l’avversario va rispettato: José non saprà perdere, ma sa certamente come si vince e come ci si deve comportare quando si è davanti e sopra. Missione sin troppo semplice raccontare un derby che è cominciato uno a zero mandando immediatamente in confusione la Lazio, incapace di ragionare e riprendersi ma solo di incassare anche il secondo e addirittura il terzo gol nel giro di un tempo: date un vantaggio concreto a Mourinho, la cui squadra è inferiore a quella di Sarri - questo è un fatto -, e lui risolleverà il morale ai romanisti.
Il gol di Abraham, assistito dalla traversa, è stato un cazzotto al mento dei laziali, avvertito in particolare da Sarri: l’abbiamo visto camminare nervosamente su e giù lungo la sua area tecnica, indicare ad Acerbi che così non si fa, quando ha sbagliato un passaggio elementare, abbandonare a lungo quaderno e appunti. Per Maurizio il secondo derby stagionale ha sconfinato nell’allucinazione: non c’è stata costruzione dal basso né palleggio insistito e il possesso palla è risultato di un’inutilità sconcertante, troppi vuoti, impossibile indicare una sufficienza.
Date l’1-0 immediato a Mou - dicevo -, consentitegli di armare la difesa e il contropiede, e il gioco è fatto: la Roma non ha mai concesso ripartenze, spazi e verticalità agli esterni della Lazio e a Immobile, controllato da vicino da Smalling (tra i migliori) e Mancini.