La confessione tardiva di James Pallotta ha qualcosa di surreale, di geniale e di perverso allo stesso tempo. Riapre in ogni caso una finestra sulla psiche certamente contorta del nostro personaggio. A farla da padrone sono i lampi luciferini, gli slanci e le repulsioni, più della razionalità. Tra il memoriale e il diario di bordo (o di guerra?) quello di James, rilasciato a “The Athletic”, la rivista sportiva on line sua prediletta, è una tempesta a puntate, tra lo sfogo, il flusso di coscienza, la confessione spudorata e una dichiarazione di nostalgia feroce. Una resa dei conti. Nel senso del rendersi conto. «Mi rendo conto che quasi il 15% della mia vita è associato alla Roma... Mi rendo conto che la mia unica vera frustrazione è che alcune persone non hanno capito quanto amassi la Roma, quanto ho lavorato duramente per portarla al successo». Caro James, ci rendiamo conto più che altro di una cosa: nel tuo spartito c’è qualcosa che stona. Tempi sbagliati. Un “minimo” di asincronia.
Storia, dunque, che si aggiunge alle tante in letteratura del fallimento di un amore, di un amore quanto meno non corrisposto. Epistola, qua e là struggente in alcuni passaggi ma che, a sbirciare i social già sanguinari di loro, fa soprattutto incazzare la parte più sanguigna del tifoso, che di pollici versi ne hanno rovesciati a bizzeffe in nove anni di gestione bostoniana. Lo sfogo di Pallotta ricorda quello dell’innamorato che, dopo aver gettato la sua bella nelle braccia di un altro, comincia a riversare sull’amata, una volta perduta, “tutti i fiori che non ti ho dato”, “tutte le parole che non ti ho detto” e “tutte le carezze che non ti ho dato”. Languori tardivi, molto in voga anche nei funerali, sulla tomba del caro estinto, quando cioè è drammaticamente troppo vero che è drammaticamente troppo tardi. Fiori e parole tardive a cura dell’inconsolabile sposo, figlio, fratello o padre che sia. Torrenziali dichiarazioni d’amore che suonano come beffa alle orecchie della persona amata, viva, morta o agonizzante che sia, comunque perduta. La replica, a quel punto, sarebbe solo una, nello stile molto penetrante di James: «Brutto idiota, potevi pensarci prima a farmelo capire che eri così fottutamente romanista!».
Ci sono anche pagine strazianti, dove l’impulso è rialzare il pollice e stendere una mano solidale sulla nuca di James, come quando racconta dello stadio: «80 milioni buttati per avere nulla in cambio». Uno stadio più volte abortito. Il suo aver dovuto navigare, come il capitano Benjamin Willard di Apocalypse Now, nella palude infetta della burocrazia romana e delle sue faide, senza nemmeno poter realizzare alla fine di tanto calvario la missione che il Pallotta sicario avrebbe dovuto compiere su mandato dei suoi soci finanziatori. «Faceva male non avere uno stadio nuovo. Era necessario per restare stabilmente tra le prime dieci squadre al mondo.
Avevamo un sacco di grandi sponsor in attesa, la Coca Cola era uno di questi». Confidenze che entrano come pugnali nel costato del tifoso romanista, costretto a girarsi tra le mani i brandelli dell’ennesimo sogno infranto. «Non solo una casa per le partite della Roma, ma un polo d’intrattenimento che avrebbe portato a ricavi da 100 milioni l’anno nelle casse del club». Rimpianti che arrivano all’estremo, di quanto cioè può spingersi nel delirio lo script dello show americano, inclusi matrimoni, concerti (citati i Rolling Stones, a cui forse non sarebbero bastati i 100 camion e l’immortalità acquisita per arrivare a esibirsi nel nuovo stadio della Roma) e funerali. «Siamo arrivati al punto di pensare di metterci un impianto di cremazione o un cimitero per i tifosi che vogliono che le loro ceneri siano sparse sul campo».
Deliri a parte, onesta e persino masochistica l’ammissione dei tanti errori. La scelta di Monchi un chiodo fisso, uno dei peggiori sulla croce della sua storia romanista. Che parte con una rivelazione che non stupisce più di tanto. «All’inizio non conoscevo il calcio, guardavo le partite e non capivo perché venivano annullati i gol per fuorigioco...». L’accordo con la Nike e la delusione. «Mi aveva promesso che ci avrebbe trattato come il Barcellona. Se sei un idiota come me, credi che lo faranno davvero». L’addio di Totti e poi quello di De Rossi. Due lutti enormi per il tifoso romanista, anche questi finiti sul libro nero di Pallotta, ormai definitivamente Calimero. «La prima idea di Francesco era di allenare. Gli abbiamo portato chi poteva insegnargli, ma lui ha deciso abbastanza rapidamente che non faceva per lui...». Il fallimentare tentativo di coinvolgerlo prima come dirigente («... hai un contratto molto soddisfacente, ti dovresti solo abituare a uno stile di vita leggermente diverso») e poi nella ricerca di nuovi talenti («vi immaginate un ragazzo di 14 anni che si vede arrivare a casa una leggenda come Francesco? Tutto inutile, Francesco voleva solo una cosa, continuare a giocare»). Impeti che lo hanno spesso spinto a buttarsi là dove non era il caso di farlo, con risvolti fantozziani, incluse piscine di Trigoria e fontane di Roma. «La prima volta che sono andato a Trigoria ho radunato tutti e mi sono buttato all’indietro in piscina, senza sapere che non fosse riscaldata. Era il mio modo per far capire che le cose con me sarebbero cambiate».
Zero titoli non ha certo aiutato, ma il capitolo dell’odio, definitivo, arriva da altro, l’incontinenza fumantina di Pallotta. Tanti passaggi critici e poi, lo shock, la frattura insanabile. Lo striscione della Sud contro la madre di Ciro Esposito e i “fucking idiots”, i fottuti idioti. Da lì in poi non sarebbero bastate tonnellate di ramoscelli d’ulivo, né acquisti eclatanti, coppe o scudetti. Niente di niente. Il destino di Pallotta a Roma era segnato. «... A livello personale posso prendermi gli insulti e restituire. Se vuoi picchiarmi, provaci e fai del tuo meglio. Quando hanno iniziato a chiamare le mie sorelle “puttane” e mia madre “maiale”, allora è stato davvero troppo...».
La verità è che non è mai stata una storia d’amore tra l’Americano con la faccia da lupo e i Lupi con la voglia dell’americano. Anche quando, da Boston, le dichiarazioni d’amore, non richieste, impollinavano la città. Convivere era diventata una condanna. Necessario recidere un cordone diventato malsano. Attaccato al suo tram che si chiama desiderio, se desiderio è sempre di ciò che ci manca (guardatevi il magnifico etimo della parola), James Pallotta ha cominciato a desiderare “fottutamente” la Roma da quando gli manca. Così sembra. Diffondere oggi il sospetto che sarebbe stato un grande presidente (io l’ho avuto a lungo) è solo una superflua crudeltà. Altra cenere tossica su questa infelice, magnifica piazza. A rimetterci, come sempre, è il tifoso romanista, passato dall’assenza verbosa di Pallotta alla presenza silente dei Friedkin. Mai un americano semplice, lineare, stile vecchia frontiera. Per il resto, la storia di Pallotta alla Roma, una gigantesca, fottuta occasione perduta.