ROMA - Una notte d’autunno, con dieci gradi sotto zero fuori dalla porta, Paulo Fonseca diventò Zorro. Doveva onorare un voto pronunciato davanti a un giornalista ucraino: se avesse battuto il Manchester City, qualificandosi agli ottavi di Champions, sarebbe andato in conferenza stampa con cappello e mascherina neri. Detto fatto. Un anno fa, a Kharkiv prima dell’ottavo contro la Roma, gli chiedemmo per quale motivo avesse scelto proprio Zorro. Fonseca, con un sorriso malinconico, rispose così: "Perché era la maschera che mi piaceva da bambino. Da bambino io ero povero e per chi è povero Zorro è la maschera più semplice da creare per Carnevale". Romantico e pragmatico, Fonseca. Come quando allena. "Non mi piace vincere e basta. Mi piace vincere giocando un bel calcio, dominando il gioco" racconta lui, sbandierando la filosofia che da sempre stuzzica Franco Baldini. C’è molto di Guardiola in questo vecchio ragazzo, cortese e affascinante, che ti riceve nella hall di un albergo alle 9 della sera per concederti un’intervista: "Un po’ Guardiola e un po’ Sarri. Li reputo due maestri. E pensi, li ho battuti tutti e due nello stesso girone di Champions".
Nel suo percorso di costruzione di una squadra dominante, Fonseca ha scelto un modulo che la Roma ha spesso conosciuto negli ultimi anni: il 4-2-3-1. L’idea, che Ranieri riterrebbe folle, è cominciare sempre l’azione dai piedi del portiere, sfruttando uno dei due mediani oppure i terzini (alti entrambi) per mantenere il possesso palla ed eludere il pressing degli avversari. L’altra chiave, in fase di costruzione, è la posizione dei trequartisti, che si piazzano dietro alla linea del centrocampo avversario, pronti a ricevere il pallone per innescare il centravanti con i tagli o l’uno contro uno. Ovviamente, come ogni strategia, il sistema Fonseca ha dei punti deboli: intanto, è dipendente dalla condizione atletica. Se la squadra abbassa il ritmo, sono dolori. E poi, in generale, la fase difensiva. Lo Shakhtar osa e concede con il baricentro alto.
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