Dunque, lo sport rende. Aurelio ci crede e ci scommette. In capo a pochi anni, cominciando dalla serie C, conquistando la serie A e dilagando in Europa, il calcio gli rende il 90 per cento rispetto al 10 per cento del cinema. Sono rare le annate in cui chiude il bilancio del Napoli in passivo. Quando va in attivo, fioccano i dividendi per il Consiglio di amministrazione (Aurelio, la moglie Jacqueline, i figli Luigi, Edoardo, Valentina, Andrea Chiavelli braccio destro del presidente). Col calcio si guadagna se si fanno bene i conti e non si spende e spande per la vanagloria di costruire uno squadrone che può anche vincere, ma non è sicuro, però certamente manda in tilt il bilancio.
È successo con Maradona. Aurelio gli assi li prende e li rivende. È il re delle plusvalenze. I centravanti sono il suo tesoro. Acquista Cavani dal Palermo per 17 milioni, lo trasferisce al Paris Saint Germain per 64. Acquista Higuain dal Real Madrid per 37 milioni, lo dirotta alla Juventus per 90. Va a vuoto con Osimhen, il giocatore che gli costa di più, 70 milioni al Lilla, in realtà 50 più il trasferimento misterioso di tre giovani calciatori al club francese, ma non riesce a ricavarne i soldi della clausola rescissoria, 130 milioni. Tratta i giocatori con aristocratico distacco. Una volta disse: «Se Cavani firma a 1,3 milioni e coi premi arriva a due, e poi mi rompe i coglioni e io gliene do addirittura tre, e non gli bastano e mi rompe di nuovo i coglioni, dico basta, rimane qua e lo lascio macerare in panchina».
L’eloquio è sempre alto con appropriate sottolineature anatomiche. Comprando e vendendo, De Laurentiis vince uno scudetto, tre Coppe Italia, una Supercoppa italiana, partecipa nove volte alla Champions e otto all’Europa League. Viene inserito nella galleria dei maggiori presidenti del Napoli dopo Ascarelli, Lauro, Fiore, Ferlaino. L’Ingegnere è durato 33 anni, un mese e 12 giorni, più di Stalin (31 anni). Imbattibile. Aurelio festeggia il ventennale. Ha 75 anni. Può andare avanti. In vent’anni, ha ingaggiato 12 allenatori e comprato 173 giocatori. Quattro allenatori lo hanno tradito, andando via: Mazzarri all’Inter, Benitez al Real Madrid, Sarri al Chelsea, Spalletti alla Nazionale. Sette li ha esonerati: Ventura, Reja, Donadoni, Ancelotti, Gattuso, Garcia, l’ultimo Mazzarri. Edy Reja ha resistito più di tutti: 164 partite di campionato, due anni in C1, uno in B, due in A. Rudi Garcia è stato il più veloce a mettersi fuori: 12 partite di campionato.
Dopo anni di lucido e positivo calciomercato, quest’anno Aurelio è andato fuori di testa con la spesa di 150 milioni per Buongiorno, Marin, Spinazzola, Neres, Lukaku, McTominay, Gilmour. Superiore all’investimento di 115,7 milioni del campionato 2016-17 con gli arrivi, tra gli altri, di Milik, Zielinski, Maksimovic, Diawara, Pavoletti. Non aveva senso ingaggiare Antonio Conte senza allestirgli una squadra protagonista. Il calcio ha reso popolare Aurelio facendolo passare, da dietro la cinepresa, davanti alle telecamere. E’ esploso. Si è fatta una corazza di antipatia litigando con tutti, fedele alla personalissima massima io sono io e voi non siete un cazzo.
Formidabile. Sale sul trono azzurro e dopo i primi successi si rivolge al popolo del golfo: «Vi porto in Europa League, vi porto in Champions, vi porto al secondo posto e che cazzo avete vinto a Napoli, un cazzo avete vinto, e sempre con questa storia di Maradona». Colpiti e affondati, che uomo! Contesta la Federcalcio, la Lega, l’Uefa. «La Federcalcio è un animale preistorico. Tutto il calcio, così com’è, è preistorico. Vedo attorno a me un mondo opacizzato, ibernato, la Federcalcio è ibernata su posizioni ottocentesche. Sono tutti delle merde, delle teste di cazzo, glielo dico in diretta, mi vergogno di essere italiano, chiederò la cittadinanza a un altro Paese».
Vorrebbe un campionato senza piccole squadre che non portano soldi. Litiga con le emittenti televisive e con i giornalisti «iettatori e rompicoglioni che scrivono stronzate». È De Laurentiis, bellezza. Lui sa come si fa. «Datemi la Mostra d’Oltremare e io ci faccio la Cittadella del Napoli e lascio Castelvolturno. Faccio il Napoli modello Barcellona, modello Manchester. Il Barcellona del futuro si chiama Napoli. Faccio la Scugnizzeria per i ragazzi di Napoli che vogliono diventare campioni di calcio».
Un appassionato visionario. Alla maniera di Lauro pensa a «un grande Napoli» e a «una grande Napoli». «Chi credete di essere in questa città inconcludente che io saprei come organizzare». Espone il suo progetto: «Qui si può costruire l’Eldorado. Napoli ha tutto e in quindici anni potrebbe diventare una locomotiva. Facciamo un’isola artificiale a forma di palma in mezzo al golfo, come ce n’è una a Dubai, e la chiamiamo Palma e ci facciamo un casinò, un albergo, villette a schiera e un approdo per 300 barche. Facciamo di via Caracciolo una promenade, come ce l’ha Nizza, come la Croisette di Cannes. Facciamo un tunnel sotterraneo dagli alberghi del lungomare a Mergellina e sopra facciamo 17 stabilimenti balneari. Creiamo 40mila posti barca da Bagnoli a Pozzuoli. Dove è nato Totò, alla Sanità, facciamo un set cinematografico permanente. Ho presentato i progetti in Comune, nessuna risposta. La Circumvesuviana è in crisi? La compro io».
Un sognatore con un cassetto pieno di sogni che restano nel cassetto. Un conversatore robusto, facondo, fluviale con un linguaggio alto e basso di marca hollywoodiana con picchi da osteria romana. E una idea fissa: «Non vendo il Napoli neanche a uno sceicco». A “Porta a porta” da Bruno Vespa confida: «Mi hanno offerto un miliardo per il Napoli e due miliardi e mezzo per il Napoli e la Filmauro». Rifiutati. Ha detto no anche a 200 milioni del Paris Saint Germain per cedergli Osimhen e Kvaratskhelia. Contesta d’avere un brutto carattere e bisognerebbe credergli per uno che a Los Angeles va a cena con Angelina Jolie e Gwyneth Paltrow che non vanno a cena con brutti caratteri. Però suo figlio Luigi rivela che «papà gode quando può mandare qualcuno a quel paese».
A Napoli, Aurelio esprime appieno questo godimento. Scopre l’eloquenza delle conferenze-stampa e le interpreta con irresistibile passione, i capelli ben tirati sul cranio, l’abito elegante, gli occhi da serpente a sonagli. Propone un modello del tutto originale nel calcio, il monologo senza contraddittorio, il trucco dell’affabilità subito soverchiato dal sussieguo del padrone indiscutibile, seguito dallo scoppio di intolleranza con fughe osé nel cinepanettone. Comincia con un sorriso cinematografico, poi da sotto la barba bianca, che comincia a fremere, tira fuori l’ira funesta, l’invettiva romanesca, la frase vendicativa e l’ingiuria definitiva. Uno spettacolo da teatro napoletano con inflessioni trasteverine. Piace agli dei che lo conducono al Bosco Verticale di Milano, un edificio grondante verdura, e qui, per depistare cronisti indiscreti, incontra in uno scantinato Luciano Spalletti. Aurelio torna a Napoli con la stella cometa toscana che gli indica la via dello scudetto. Ci sono in squadra Osimhen, Koulibaly, Insigne, Mertens, Zielinski e la nostalgia del Napoli di Sarri. Spalletti si avvicina allo scudetto, ma lo manca nel finale (terzo).
L’anno dopo via Koulibay e i poeti del sarrismo Mertens e Insigne. Spalletti si lamenta: «Mi hanno ceduto i migliori». Giuntoli porta a Napoli Kim e Kvratskhelia, sconosciuti spernacchiati dal volgo. Il Napoli vola e stravince lo scudetto. Aurelio gongola, ha dimezzato lo svantaggio su Ferlaino. Nel trionfo perde la testa e perde Spalletti. Inscena allo stadio un kolossal di luci, suoni e balli, attore unico e protagonista Aurelio De Laurentiis, la sua barba, il suo microfono. Lo scudetto è l’affermazione definitiva dell’io sono io e voi non siete un cazzo. Giunto al culmine del successo, ne evita le vertigini e ne fa una conquista personale travestendosi da onnipotente del pallone. Ma precipita dall’alto del suo cielo incappando, l’anno dopo, nel tracollo della sua irresistibile spocchia. Invitando Thiago Motta ad allenare il Napoli, alla domanda del brasiliano su chi fosse il direttore sportivo, andato via Giuntoli, gli risponde faccio tutto io, e quello scappa.
Dal baratro di un decimo posto che cancella scudetto, entusiasmo, simpatie e solidarietà di circostanza, e cancella lui stesso, Aurelio che fa tutto lui, prima di precipitare afferra Antonio Conte e si salva. Ha imparato la lezione. Rinuncia alla passerella tra i tifosi, scompare dalle conferenze-stampa, si defila e lascia il Napoli e il calcio a chi sa di calcio concedendosi una sola sciccheria personale, la presentazione di Conte a Palazzo Reale. L’ultimo guizzo dell’ultimo Borbone, Aurelio De Laurentiis re di Napoli e, in fin dei conti, un estroverso birbante del pallone.