A centrocampo il termometro della malattia sta tutta nella difficoltà perfino di un regista illuminato e mobile come Lobotka di disfarsi della palla consegnandola a un compagno smarcato, poiché i suoi naturali interlocutori sono più spesso dietro l’avversario. Segno che non ci sono le gambe e meno che mai la testa. Certo, dopo il gol del pareggio dell’Union, la squadra di Garcia ha abbozzato una reazione orgogliosa e più volte si è trovata a un passo dal gol. Ma si è trattato di una prova di nervi, condotta con grande dispendio di energie e poggiata sulle iniziative individuali prima di Politano e Kvara, poi del solo georgiano, che fino all’ultimo secondo ha tentato di bucare la tripla marcatura dei berlinesi e di portarsi al tiro. Quando è riuscito nel suo intento, il grande sforzo fisico compiuto in una corsa troppo lunga e troppo insistita lo ha portato a calciare in maniera innocua o comunque a farsi respingere il tiro.
Purtroppo i segnali di allarme che giungevano dalla ultima partita, ancorché vittoriosa, contro la Salernitana e dallo stesso pareggio con il Milan sembrano essere stati ignorati. Garcia sta affrontando queste gare, decisive per la sua panchina, abbarbicato a un undici blindato, a cui consegna una responsabilità eccessiva. Alle sostituzioni eccentriche e talvolta immotivate di inizio campionato è seguita la fase delle non sostituzioni, o delle sostituzioni tardive. Come quella di Lindstrom, il giovane esterno azzurro a cui sembra toccare la sorte punitiva di Rivera negli ultimi sei minuti di Brasile-Italia del 1970. Che senso ha mettere in campo all’87’ un ventitreenne, costretto ad accumulare sulle sue spalle nessun rodaggio ma solo frustrazione? E che senso ha tenere in campo uno spento Raspadori che qualunque altro tecnico avrebbe sostituito, affiancandolo solo al 77’ con Simeone? La gestione della rosa in un modo così poco coerente, rispetto all’obiettivo di valorizzare il patrimonio sportivo, rischia di bruciare molte delle potenzialità presenti nello spogliatoio azzurro. C’è da chiedersi se sia ineluttabile assistere a una sofferenza collettiva che, cronicizzandosi e crescendo di intensità, rischia di tradursi in agonia.