Napoli, visione e umiltà

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Alessandro Barbano
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Pum, pum, pum, pum. Scoppiano come bolle di sapone gli errori di Garcia, gli avvisi di garanzia, gli scherzi da prete contro Osimhen, il freddo nello spogliatoio. Pum, il rigore perfetto di Zielinski capitano di fatto, in giornata stellare. Pum, il piatto beffardo del nigeriano in anticipo sul portiere in uscita. Pum, il tocco di velluto di Kvara che scavalca Silvestri e che vale un gol prima ancora che la palla superi la linea di porta. Pum, la coda dell’occhio del georgiano che vede Simeone in mezzo all’area e gli fionda un cross dritto sulla fronte. Pum, pum, pum, pum, il Napoli è il Napoli. Più bello, più forte, più maturo di prima. Vi eravate illusi che fosse fuori dai giochi? Beh, avete commesso un errore a crederlo. Perché questa squadra può sbagliare giornata, può sbagliare allenatore, può sbagliare tattica, ma ha un potenziale pazzesco. Certo, può farsi male da sola. È nelle ultime ore si è applicata con molto ingegno all’autolesionismo, ma la sua dotazione di genio è così ricca da venir fuori contro ogni stitichezza del coraggio e dell’armonia che gli errori umani hanno seminato sul suo cammino.
La passeggiata contro l’Udinese, che non era né scontata, né facile, dice che questo tesoro brilla anche se lo si getta in fondo al mare. Perché ci sono almeno sette giocatori che non hanno eguali nel campionato italiano: diciamo di Osimhen, Kvara, Zielinski, Lobotka, Anguissa, Di Lorenzo, e mettiamoci pure Politano. Quando stanno bene e quando sono motivati come ieri, possono trasformare una partita di calcio in un’esibizione da globetrotters. Attenti, questo non vuol dire che hanno già vinto. Anzi, sarà molto difficile ripetersi nel bis dello scudetto. Vuol dire però che l’avversario del Napoli non è l’Inter, caduta ieri a San Siro, non è il Milan, non è la Juve. Ma il Napoli stesso. Il rischio di un calo delle motivazioni, di uno scollamento delle relazioni, di un deficit organizzativo sono il nemico di questo straordinario gruppo umano, amalgamato da uno scienziato come Spalletti e ora messo nelle mani di un tecnico a cui si chiede di sintonizzarsi con questa complessità meglio di quanto abbia fatto finora. Non è facile, perché un’eredità così pesante farebbe tremare le vene ai polsi a chiunque. E perché a Napoli, dove tutto accade, l’inabitudine alla leadership è un fattore di grande fragilità. Il successo da queste parti fa paura, la sua manutenzione è un carico di responsabilità. Però tocca provarci.
Difendere il successo vuol dire farlo evolvere. Tatticamente significa aggiornare il palleggio veloce che Spalletti ha portato al Maradona e che questo gruppo può fare con un ritmo impareggiabile. Garcia lo interpreta in maniera più prudente, intercalando il lento e il veloce per far rifiatare meglio la squadra. Questo non è un male, a patto di saper imprimere accelerazioni repentine come quelle viste contro l’Udinese. Ma difendere il successo vuol dire anche far crescere i rincalzi con sostituzioni azzeccate, senza mettere a repentaglio il risultato. Perché difendere il successo vuol dire anche esportarlo in Europa. Per riuscire nell’impresa occorre un gruppo di almeno diciotto titolari capaci di prestazioni equivalenti nell’arco di un’intera stagione.
Ma attorno a questo impegno ci vogliono condizioni di serenità e di fiducia, che un club egemone non può rinunciare a costruire. L’incidente del video postato da un infelice tiktoker non preoccupa in sé, poiché già cancellato dal campo, ma segnala un problema culturale che forse va affrontato con maggiore consapevolezza. Per vincere uno scudetto può bastare l’intelligenza e l’audacia di un mercante moderno, per costruire un ciclo occorre una grande architettura di visione e di umiltà.

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