Quando si volevano bene, ma sotto sotto non hanno mai smesso, Massimiliano Allegri e Luciano Spalletti condividevano la stessa idea di calcio: poi uno se n’è andato a nuotare nei mari della riviera, l’altro ha continuato a cercare quadrifogli nel bosco, e comunque sono rimasti sostanzialmente simili, semmai meno empatici d’un tempo, hanno baruffato un po’ ma intimamente conservano quell’affinità e quella stima reciproca che un giorno riemergerà dinnanzi ad un calice di rosso.
Juventus-Napoli non è una partita banale, mai successo e nell’ultimo decennio men che meno, e pure stavolta, sotto la glassa d’una retorica di facciata, resiste la granitica consistenza della strategia, l’appeal d’una serata speciale per entrambe, le emozioni da spargere nell’orizzonte più o meno definito. Juventus-Napoli sa di scudetto, sa di Champions, sa di Europa League sa di rivincite, sa di Storia che s’aggroviglia, sa di visioni ormai diverse, alcune mutate nel tempo e altre invece stratificatesi, ma in quest’ora e mezza tutto compreso c’è il brivido del calcio stesso, la sua trasversale interpretazione, la natura modellata secondo prospettive ormai ritoccate o anche no. Allegri e Spalletti hanno assorbito, per un bel periodo, le identiche idee, premiate con la panchina d’oro quando con Cagliari (2009) e Udinese (2005) galleggiavano nella stesso spazio (il tridente o il 4-2-3-1 o il 4-3-2-1) poi la Juventus negli anni ha reimpostato i codici di un uomo che ha vinto a oltranza e ha pure consolidato le convinzioni di un visionario che sta per arricchire la propria carriera d’un trionfo leggendario, che rivoluziona le gerarchie del potere economico del football italiano e rilancia la necessità di credere in qualcosa, fosse pure una favola o più realisticamente un “progetto”. Juventus-Napoli appartiene ad Allegri e a Spalletti più di ogni altro dettaglio, è la sintesi della loro eccezionale normalità (o di una normale eccezionalità), sottolinea la capacità di dominare o di domare le turbolenze più estreme di un allenatore divenuto pratico, concettualmente asciutto come un’“acciuga”, ed esibisce l’evoluzione d’un sognatore che nel proprio tour dell’anima si prepara a festeggiare il premio alla carriera nel teatro ch’è appartenuto a Maradona, il più fascinoso esempio della spettacolarità.
Gli opposti
In teoria, Allegri e Spalletti sono gli opposti (che si attraggono, al di là delle apparenze); in verità, le analogie affiorano proprio in questa nottata che sa di loro, in cui ognuno insegue una missione, grande o piccola che sia. La Juventus s’è ritrovata a recitare un ruolo marginale rispetto al proprio vissuto, è stata depotenziata da infortuni che ne hanno minato il prestigio tecnico ma pure la forza, ha dovuto fronteggiare una crisi epocale che ha creato da sé e che Allegri ha governato a modo suo, affidandosi all’ultimo dio abbracciato, il risultato: però sta lì, semifinale di Europa League, allargamento dell’organico ai Fagioli, ai Miretti, ai Barrenechea, ai Soulé, un futuro che ha la certezza scolpita nella maschera immutabile del proprio allenatore, perché le sentenze del campo si possono provare ad orientarle ma quelle dei Tribunali sono invece imprevedibili. Poi, dinnanzi allo specchio, c’è chi rimane nella scia dell’ombra del passato - gli scudetti vinti, lo status internazionale svanito - ignorando che ne sono successe di cose ed altre ancora ne potrebbero accadere. Il Napoli è la rappresentazione più moderna del calcio, la plastica espressione di una vivacità di pensiero, la sintesi di una filosofia che ha ignorato i luoghi comuni, anzi li ha disintegrati attraverso il coraggio di De Laurentiis e la competenza di Giuntoli, poi s’è lasciata esaltare da Spalletti, dalla sua cultura quasi eversiva, placatasi nell’ultimo mese, denso di tackle rovinosi della sorte, pure di quel filo (assai spesso) d’amarezza che da martedì sera questo fantastico ribelle si porta appresso tra i filari dei propri vigneti o nel silenzio assordante del suo eremo, ch’è Castel Volturno, svuotato dalla Champions, dalla possibilità di adagiarsi nell’Olimpo europeo. Ma ora sarebbe masochismo continuare ad ossessionarsi di quell’epilogo desolante, perché Torino avvicinerebbe comunque al trionfo, ormai imminente, e dipende da Allegri, due vittorie o semmai tre, mentre Madame graffierà il proprio orgoglio, proverà a differire l’apoteosi del Napoli per blindarsi al secondo posto e ritagliarsi una dimensione insolita che comunque le consentirebbe di ammorbidire le bufere.
Le identità
Juventus-Napoli è l’affermazione d’un processo identitario che Allegri e Spalletti sono riusciti a realizzare, seguendo istinto e “dottrine” personali, ognuno ha qualcosa da afferrare in questa notte egualmente magica, che sa d’un calcio ampio, un po’ vintage o semmai appesantito, però indiscutibilmente ricco d’un sentimento che sta dentro ad una partita senza tempo, è stata di Maradona e Platini, ora vive di Chiesa e Kvara, di Di Maria e di Lobotka, principalmente di Allegri e Spalletti, rabdomanti di quest’epoca nella quale, tra riviere e boschi, ci sono emozioni da scovare.