La sindrome del carneade

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La sindrome del carneade© ag. LaPresse
Alessandro Barbano
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Cyril Ngonge, chi era costui? Confusi in una postura difensiva che richiama il fatalismo infingardo di Don Abbondio, questa domanda devono essersela posta in molti, tra i difensori e i centrocampisti azzurri, quando al novantunesimo il giovane rincalzo del Verona, imbeccato da Verdi, si è involato tutto solo verso la porta di Meret, come un rugbista verso la meta che vale da sola una stagione. Sul profilo di Wikipedia di questo attaccante belga, nato a Uccle ventidue anni fa, c’è scritto: «Ala destra a cui piace accentrarsi per provare la conclusione di mancino, è dotato di un ottimo senso del gol che gli permette di essere impiegato anche come punta centrale». Spalletti ha toccato con mano, rallegrandosi, quanto mendaci siano le biografie della più grande enciclopedia digitale del pianeta, poiché il ragazzo di Zaffaroni, giunto a pochi passi dal portiere azzurro, ha colpito il pallone in un modo così maldestro da dare la sensazione che si fosse improvvisamente sgonfiato. Così il Napoli, dopo aver assediato la porta di Montipò per settanta minuti con scarsa fantasia e incisività, e per altri venti con caparbia irresolutezza, ha evitato di uscire battuto dal Maradona alla vigilia del ritorno di Champions con il Milan. Resta il fatto che la ciabattata di questo giovane carneade, figlio della interessata esterofilia del calcio italiano, dovrebbe essere di lezione. Poiché non è ammissibile per una squadra che punti a traguardi ambiziosi scoprirsi in una maniera così indecente.

In mezzo bisogna coprirsi

Intendiamoci, il rischio di perdere il possesso sulla trequarti è una circostanza da mettere in conto. Anzi, male sarebbe rinunciare a tentare di verticalizzare il gioco con i portatori di palla, limitandosi ai più comodi ma inoffensivi passaggi orizzontali o all’indietro, quelli, per intenderci, che hanno in Demme un campione di livello mondiale. Tentare la triangolazione stretta, l’uno contro uno in percussione, è legittimo e, di più, doveroso, se si vogliono scardinare i meschini catenacci del nostro campionato. Ma in mezzo bisogna coprirsi. Altrimenti accade quello che è accaduto già due volte per mano, e piedi, di Brahim Diaz a distanza di dieci giorni. Al netto dell’ingenuità che ha dissuaso Lobotka e Mario Rui dal fermare il fantasista spagnolo con un fallo tattico, non è ammissibile che l’avversario in contropiede possa attraversare indisturbato una prateria deserta, trovando tra sé e la porta solo il baluardo di un centrale, costretto a perdere la sua marcatura per fermarlo. Se il disastro ieri non si è ripetuto, è solo perché la caratura offensiva del giovane Cyril Ngonge è parsa più modesta di quanto la serie A dovrebbe tollerare. Qualche giorno fa, dopo la sconfitta di San Siro, avevamo lanciato una provocazione a Spalletti, suggerendogli l’abbandono del 4-3-3 in ragione di un 4-4-2 che garantisse un centrocampista in più. Lobotka, Zielinski, Anguissa (ma con il Milan toccherebbe a Elmas per la squalifica del camerunese) e Ndombele insieme rappresenterebbero una rete ubiqua per imbrigliare le discontinue ma folgoranti percussioni rossonere. Tuttavia, chi conosce bene il tecnico toscano sostiene che questa ipotesi cadrà nel vuoto, anche perché Kvara, lontano dalla sua fascia di riferimento, non sarebbe la spalla ideale di Osimhen in un attacco a due. Probabilmente ha ragione Spalletti a insistere con il modulo classico che segna ormai da anni l’identità tattica di questa squadra, e abbiamo torto noi.

Gli errori del Napoli

Resta il fatto che il Napoli non può rischiare di perdere una gara come ha fatto contro il Verona, e allo stesso tempo non può rinunciare a verticalizzare la sua manovra con azzardi che, quando riescono, portano gli azzurri al gol. L’equilibrio da trovare è difficile, e per questo obiettivo non è allenante un campionato dove il divario di qualità tra le big e le squadre che lottano per la salvezza è troppo ampio. Con l’effetto di dimenticare che in Europa errori come quelli visti nelle ultime settimane si pagano. Ci piace sottolineare questa vicenda, perché siamo convinti che il Napoli abbia la qualità per alzare l’asticella dei suoi traguardi, ma sconti un deficit di esperienza che va colmato con l’intelligenza tattica e il carattere. Il resto è fiducia. Il cui termometro è repentinamente salito quando al settantatreesimo la mascherina di carbonio nero ha fatto ingresso in campo tra l’ovazione del Maradona. Osimhen ha cambiato volto al Napoli in un baleno, tramutandolo da monocorde in duale. Non solo per la sua caparbietà nell’attaccare la porta, sfiorando il gol con un tiro sulla traversa, ma perché la sua geometria tattica nella trequarti avversaria è un’alternativa capace di spostare il palleggio azzurro tra le linee. Con il nigeriano in campo tutti, da Zielinski a Lobotka, da Kvara a Di Lorenzo, cambiano il loro modo di giocare e di pensare il calcio. È questa evidenza che fa della sfida dell’anno, martedì al Maradona, una gara più aperta che mai. Tutta da giocare.


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