In fuga a sportellate, facendosi largo con una prepotenza pari alla convinzione che è lassù, davanti a tutti, il posto dove il Napoli vuole stare. Il secondo gol di Elmas è la metafora di questo tripudio della volontà. Osimhen è già sfuggito più volte alla guardia di Demiral, anticipandolo nei rinvii della difesa, doppiandolo negli scatti, bruciandolo di testa sull’assist di Zielinski per la rete del pareggio. Stavolta il dribbling non è perfetto, perché la palla ha un rimbalzo imprevisto, ma l’ipotesi di poterla perdere è per il nigeriano semplicemente inaccettabile. Ed ecco che la sua sagoma si allarga davanti al centrale atalantino come un’entità convessa che avanza, spingendo il pallone avanti in un flipper con l’avversario, che non può che finire nel modo in cui Osimhen stesso intende, cioè a suo vantaggio. In questa supremazia di corpo e anima, vedi il Napoli che vuole fortissimamente tutto ciò che il campo gli mette davanti. Anche l’esterno macedone, che riceve il caparbio assist del compagno, tira con la stessa determinazione, una frazione infinitesimale prima della reazione di Hateboer, che pure si allunga nel disperato tentativo di coprirgli lo specchio. La carambola che imprime al pallone una traiettoria imprendibile per Musso non è frutto del caso. Ma di quella volontà di potenza che, a differenza di ciò che accade nella vita, nello sport è una virtù.
Sfila sotto i nostri occhi un Fenomeno con la maiuscola. Inedito nella storia recente, perché neanche la Juve dei tempi migliori, abituata a fare il vuoto attorno a sé, ha mai messo in gioco tanta risolutezza insieme a tanta qualità. Certo, tredici partite non fanno la storia, nove scudetti consecutivi invece sì. Ciononostante non si ricorda un’egemonia così netta e così complessa, perché piantata allo stesso modo sui risultati e sulla bellezza: il modo in cui il Napoli vince sopravanza il valore stesso della vittoria. Perché il suo dominio estetico è inattaccabile. Anche al cospetto di una fortissima Atalanta, brava a giocare sullo stretto, capace di smarcarsi più volte pericolosamente davanti a Meret, e anche un tantino sfortunata. Perché la traversa nega a quel furetto di Lookman una rimonta che all’inizio della ripresa poteva anche apparire legittima. Ma con il cosiddetto senno di poi il giudizio è un altro: il Napoli si è preso ciò che ha ampiamente meritato. Con un predominio a centrocampo mai in discussione, dove Lobotka dirige il gioco con una mobilità pari alla sua intuitività sensoriale, che gli consente di virare a destra e a sinistra, avanti e indietro, come se avesse un radar al posto del cervello. Pur osando talvolta con la palla ai piedi più di ciò che sarebbe concesso a qualunque regista, non perde in novanta minuti un solo possesso. La sua intelligenza tattica è la forma razionale della bellezza azzurra. E tuttavia dire che a Bergamo l’assenza di Kvara non si sia sentita sarebbe una pietosa bugia. Il diligente e risoluto Elmas ha regalato la vittoria a Spalletti e poi l’ha difesa con un’attenta copertura sulla sua trequarti sinistra. Ma senza la fantasia del georgiano le occasioni di passare tra le linee si riducono. I sei punti che dividono il Milan dal Napoli sono la fotografia realistica della differenza di valore tra le due squadre. I rossoneri che battono lo Spezia, sprecando molto di ciò che pure costruiscono, stanno una linea sotto gli azzurri. Non solo perché il bravo Bennacer non vale Lobotka, Giroud non vale Osimhen, Leao non vale Kvara. Ma per quello che si potrebbe definire un difetto di entropia. La padronanza del gioco che il Milan esprime ha punti di sfocatezza, come se, a dispetto dello scudetto già vinto, una cifra di immaturità e di disordine restasse nel carattere di questa squadra giovane e talentosa. Il Napoli che nulla ha vinto, e che pure inaugura un nuovo corso, sembra più solido. Come se tra nuovi acquisti e vecchie conferme ci fosse una complementarietà naturale. In realtà è una suggestione, perché il merito di questo impasto perfetto è tutto di Spalletti.