In una carriera che è piena di sé, Luciano Spalletti ha infilato varie idee alternative, quasi tutte (molto) belle, qualcuna persino travolgente, e non è un caso che il giorno in cui uscì da Coverciano, i colleghi diplomati lo guardarono con ammirazione. Quando gli consegnarono la panchina d’oro, Luciano Spalletti aveva 46 anni: guidava l’Udinese, che non rientra mediaticamente tra le grandi attrazioni del football.
Champions League, la rivoluzione del Napoli di Spalletti
Il Napoli di Amsterdam è una delle diapositive più espressive del calcio italiano, e non solo quello contemporaneo, esprime concetti tecnici e tattici esaltanti, induce a riempirsi gli occhi con tutto ciò che emerge nei movimenti di una Treccani che contiene ogni frammento, marginale o “centrale” nell’economia del progetto, i movimenti, le coordinate, le coperture, gli attacchi, il terzo uomo, le uscite della punta, le incursioni dei centrocampisti. Questo è il Napoli post-rivoluzione, e s’è già detto, ma questo è il Napoli che sta attuando un’altra rivoluzione, che porta la sua autorevolezza in giro per la Champions - quattro gol al Liverpool, tre ai Rangers e altri sei all’Ajax - che domina sempre, con la testa pure, che demolisce i luoghi comuni sull’inadempienza spettacolare del calcio italiano, che con quella mentalità sgargiante trasforma la partita in arte. Quello che sino a ieri sembrava il Napoli di Kvara, soprattutto il suo, tutto graffi nelle anime altrui, poi finisce per appartenere, e non completamente, all’insaziabile Jack Raspadori, che ha “semplicemente” segnato al Liverpool, con i Rangers, con la Nazionale e all’Ajax, nel dettaglio sarebbe al “Maradona”, ad Ibrox, alla Puskas Arena e alla Cruijff Arena: non si va a spasso nei templi del football senza portare in sé tracce di scugnizzo, incurante delle pressioni delle leggende che s’avvertono tra i fili d’erba. E, quasi d’incanto, il Napoli è di Lobotka, nelle rotondità e nella padronanza del suo palleggio, nello spessore delle giocate - corto o lungo - e se qualcuno dovesse decidere di identificare il Napoli in Di Lorenzo o in Zielinski, in Kim o in Rrahmani, in Ndombele o in Simeone, in chi c’è o in chi sta in panchina, ci saranno comunque buoni motivi. I paragoni sono improponibili, rischiano d’essere imbarazzanti e/o offensivi, ma era da un bel po’ che una squadra italiana non si presentava con questa sua faccia tosta, imponeva il proprio gioco, lo dettava secondo le proprie tendenze quasi naturali, e trascinava nel gorgo della fantasia. Il Napoli è di tanti, è di ADL e del suo management che sembra visionario ed è pure sublime come racconta l’evoluzione del club; è pure di Cristiano Giuntoli e dell’area tecnica, che hanno rastrellato talenti meravigliosi a prezzi di discount calcistico; ma il gol dell’1-1, quello che apre all’impresa - un capolavoro costruito con pennellate nelle ripetute in allenamento - lo consegna tecnicamente e tatticamente a Luciano Spalletti. Le mani sulla città sono le sue, oggi.