Milan e Napoli, i due mondi paralleli

Antonio Giordano
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ROMA - C’è chi ha soprattutto i soldi - e talvolta li spreca - e chi ci aggiunge pure le idee; c’è un calcio che brucia capitali e poi ce n’è un altro che, attraverso rabdomanti, va scovare tra le pietre arse il futuro. C’è il Milan che se ne sta andando in giro nella sua abbagliante veste di Campione d’Italia e allo specchio, nell’immagine riflessa, si rivede il Napoli, che non ha titoli né scudetto al petto ma fattezze assai simili. C’è questa bellezza visibile a occhio nudo che trasforma una partita a modo suo già speciale, un pezzo di storia degli anni ‘80 nel quale si racchiude un’epoca di straordinaria eleganza, in un kolossal che conquista: la Champions League, tanto per gradire, ha ribadito ciò che da un bel po’ appare evidente e la rigogliosa esuberanza del Milan sommata alla sfrontata autorevolezza del Napoli, finiscono rigorosamente per rappresentare l’ampiezza del Progetto.

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Milan, il peso di Giroud e il genio di Leao

In quest’ora e mezza in cui domenica sera il Potere si scontra frontalmente, c’è la sintesi stessa della natura dei due club, così “terribilmente” distanti nella loro struttura societaria e invece pure così orgogliosamente vicini nella lucida filosofia che ispira entrambi, fuori dal campo e dietro le scrivanie.

Milan e Napoli appartengono geneticamente a Stefano Pioli e a Luciano Spalletti, sono i figli naturali di concetti e di teorie per niente astratte, hanno ricevuto un’educazione nel (breve) tempo che li rende gioiosi, estrosi, garbati sino a diventare raffinati, a tratti persino superbi, capaci di rapire il pubblico, stordendolo dentro il possesso e l’ossessiva desiderio di piacersi per conquistarlo con uno stile tutto proprio. Ma il Milan appartiene pure alla patrimonio ch’è di Paolo Maldini e di Ricky Massara, i pilastri tecnici di una società che ondeggia in questa galassia - i fondi - alla quale i contemporanei italiani non si sono ancora abituati, la concentrazione d’un modernismo “industriale” che pare assente o vago o irriconoscibile e che invece ha un senso pratico che sfugge.

Il Napoli pare - pare - più “artigianale” e invece De Laurentiis lo ha emancipato in fretta, ha sottolineato la propria capacità nel saper fare impresa, ha dialogato personalmente con i bilanci e con le rivoluzioni, non ha mai subito il vento e semmai ha soffiato affinché nell’aria si cogliesse l’innovazione che Cristiano Giuntoli, il diesse, ha sublimato in quest’estate di Kvara e di Kim, di Ndombele e di Raspadori in cui se ne sono andati pezzi romantici dell’ultimo decennio. Il Milan ha dovuto fronteggiare gli addii in sequenza di Donnarumma, di Romagnoli, di Calhanoglu e di Kessie, s’è lasciato cullare dalle conoscenze della propria area tecnica, ha aperto un altro ciclo con i Maignan, i Tomori e i De Ketelaere.

A San Siro, dopodomani, mancheranno Leao e Osimhen, e ci si può amichevolmente e dialetticamente azzuffare sull’importanza del portoghese e del nigeriano e poi decidere su chi tra Pioli e Spalletti ci rimetterà di più: ma nonostante tutto, alla Scala del calcio, va in scena un imperdibile atto più unico che raro. È cultura calcistica.


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