Mentre usciva dal San Paolo, battendosi il cuore con la mano destra, Marek Hamsik stava semplicemente lanciando un messaggio: «Vi porterò qui dentro. Sempre». In una vita che, a modo suo è un romanzo, a 1.188 giorni da quel 2 febbraio 2019 che non chiuse un amore ma lo legittimò nel silenzio tortuoso del “dolore”, proprio quando è stato eletto re in Turchia, con tanto di corona in testa, avvolgendosi nell’estasi d’uno “scudetto” con il Trabzonspor che gli appartiene, Hamsik butta via per un attimo la propria ritrosia, lascia che l’euforia galleggi sul Mar Nero, si fascia del proprio vissuto e lo svela al Corriere dello Sport-Stadio. Lo fa a modo suo, con la sobrietà di parole che sgorgano dall’anima, sorridendo con quella serenità interiore che lo fa apparire “normalmente” diverso dagli altri, spalancandosi attraverso una videochiamata nella quale non c’è una cresta, men che meno un trono, ma la semplicità d’un giovanotto che, raggiante, con gli occhi, lascia che Napoli si stagli nella retrospettiva e però s’infili pure nell’orizzonte. «Tornerò quest’estate in vacanza, tre o quattro giorni, e non so come farò a dividermi». Il turco-napoletano ch’è in lui è già travolto da quell’onda anomala che romanticamente vorrebbe sommergerlo d’affetto: ci sono dodici anni, 520 partite, 121 gol, e questi sono i dettagli di un’esistenza piena e ricca d’un patrimonio che sta lì a raccontare un uomo.
Ora possiamo dirglielo, Hamsik: lei è un campione (di Turchia ma non solo).
«Mi sono goduto finché ho potuto la serata in cui abbiamo conquistato il titolo con il Trabzonspor. Sono rimasto in campo tra la gente per venti minuti almeno. Penso di essere stato l’ultimo a rientrare nello spogliatoio e facevo fatica ad andarmene».
È un successo che quasi chiude un cerchio.
«Quando ho firmato per il Trabzonspor, non avevo chiara la forza della squadra. I dirigenti e l’allenatore ci credevano e devo dire che avevano ragione loro. Io l’ho capito dopo cinque giornate e mi sono convinto che ne avevamo seriamente la possibilità. Qui il livello del calcio è notevole, l’organizzazione del club è di altissimo spessore e la scelta si è rivelata giusta».
Avete fatto la storia: erano trentotto anni che il Trabzonspor non conquistava il campionato.
«Più tempo che a Napoli, se ci pensa. E la gioia della gente la si coglie ovunque, ancora oggi e chissà per quanto ancora. Con questo successo, sono stati capovolti i valori: nell’immaginario collettivo, le grandi sono altre e invece ci siamo imposti noi, con tre giornate di anticipo ».
Come arriva Hamsik in Turchia?
«Un amico, al quale sono legato, mi chiama e mi dice: ci andresti? E io: ci vado. Ero curioso, come sempre, volevo scoprire tutto quello che mi aveva raccontato Skrtel. E ora aspetto la celebrazione, quella con la Coppa e le medaglie, che avverrà alla prossima gara interna, dinnanzi al nostro pubblico. Non è finita la festa».
Problemi ne ha incontrati?
«Nessuno. Al Trabzonspor c’è una struttura societaria imponente. Mi manca la famiglia, che sta in Slovacchia, per la scuola dei bimbi soprattutto. Ma sono sacrifici che bisogna fare, tenendo conto dei nostri privilegi. È stato più difficile in Cina, nella seconda stagione, quella nella quale è scoppiato il Covid. Ma pure lì ho fatto un’esperienza straordinaria dal punto di vista umano».
Per dodici anni a Napoli, poi in sei mesi va dalla Cina alla Svezia alla Turchia.
«Devo sdebitarmi con il Göteborg: ci sono rimasto poco e ci ho giocato pochissimo, sapevano che sarei stato di passaggio ma mi hanno accolto con entusiasmo. Avevo deciso di prendermi uno spazio in vista dell’Europeo, volevo arrivarci pronto: e loro mi hanno concesso questa possibilità. Poi sono arrivato al Trabzonspor, l’ambientamento è avvenuto in maniera rapidissima, merito anche del mister - di Abdullah Avc? - che ha preso il meglio di me, mi ha cambiato posizione, mi ha lasciato libertà di espressione davanti alla difesa. E soprattutto ha rappresentato il nostro punto di riferimento».
Lei con gli allenatori ha sempre avuto rapporti che si potrebbero definire idilliaci e da loro ha ricevuto, in cambio, la meritata riconoscenza.
«È la mia natura ma anche il rispetto dei ruoli, che è sacrosanto. Non mi chieda classifiche sul mio preferito, non ne farei, perché sono stato bene con chiunque, anche quando si diceva in giro che non era così. Mai avuto incomprensioni, mai attriti veri, mai frizioni, mai una discussione che non fosse un confronto sereno. Le decisioni spettano a loro, noi dobbiamo seguire le indicazioni e cercare di metterle in pratica».
Sta invecchiando bene... A parte la barba, resta un ragazzino dentro: quanto Hamsik ci resta ancora?
«Un polpaccio mi ha dato un po’ noia ma l’ho risolto e sento di poter offrire qualcosa. Il calcio, direi il campo, resta la mia vita. Scadenze non ne fisso, però due o tre stagioni mi toccano».
La Champions League è tutta da vivere.
«È la manifestazione più bella del mondo. C’è un’atmosfera magica, che spero di poter rivivere. Vedremo cosa accadrà, non ci è ancora chiaro se avremo accesso diretto, per colpa del ranking. Ma le situazioni sono da definire. Non oso pensare al sorteggio, alla eventualità che dalla pallina esca il nome Napoli. Non provo ad immaginare le sensazioni».
Si dice Hamsik, si dice Napoli.
«È stato e resta un amore grande, che ho vissuto appieno per dodici anni. Conservo amicizie, pure nella squadra ovviamente, anche se la mia riservatezza e la mia scarsa vena da comunicatore mi frenano. Ma sento quando è possibile De Laurentiis, dal quale ho ricevuto testimonianze di affetto vero che non sono mai svanite dal giorno dell’addio. Ho contatti con Maurizio Micheli, il capo dell’area scouting che mi portò in Italia a Brescia ed al quale devo tanto. Poi anche i compagni, certo».
Insigne andrà in Canada.
«Penso che la storia di Lorenzo sia molto simile alla mia».
Lei non riuscì a salutarsi nel modo più adeguato ai sentimenti che la legavano alla città.
«Accadde tutto così in fretta, c’era il campionato in corso. Ma non è mai troppo tardi per rivedersi, magari organizziamo una partita di addio al San Paolo, lo facciamo con DeLa. Oppure se vogliono che quando chiudo passi a fare il dirigente, io alzo la mano e dico: eccomi qua».
Certi amori non finiscono.
«Non ho dimenticato nulla, mi tengo tutto: le Coppe Italia, la Supercoppa, le emozioni, i ricordi. Lo scudetto sarebbe stato giusto, ci siamo andati molto vicini. Come quest’anno, in una stagione diversa dalla nostra: stavolta se lo contendevano in tre, allora eravamo noi e la Juventus».
Chi lo vince, adesso?
«Il calendario lascia all’Inter ancora qualche chance. Io, fossi al Milan, starei attento fino all’ultimo secondo».
Napoli l’ha presa male perché ha giustamente creduto di potercela fare.
«Ma il ciclo-De Laurentiis conferma che c’è stato un ruolo da protagonista, sempre. E se ci è andato vicinissimo nel 2018, se poteva pure capitare prima, se Spalletti è riuscito ad inseguirlo sino a cinque giornate dalla fine, vuol dire che esistono le condizioni e verranno ricreate».
Marek, possiamo dirci (quasi) tutto?
«Possiamo».
Che numero di scarpe porta?
«45».
Allegri tentò di “depistare” i giornalisti, ricorderà, e quando tentò di acquistarla per il Milan disse: il mister X che cerchiamo calza il 42.
«Ricordo».
Allegri l’ha cercata per portarla al Milan, nel 2011.
«Vero».
E la voleva anche alla Juventus.
«Confermo. E adesso posso rivendicare con orgoglio che la stima di un allenatore di questo spessore mi ha fatto enormemente piacere. Non gli ho mai parlato direttamente ma sapevo che mi considerava degno di giocare con lui e che ne sarebbe stato contento».
Mazzarri l’avrebbe trascinato all’Inter, dove già l’avrebbe voluto Moratti.
«Non posso smentire. Ma io non ho mai pensato di lasciare Napoli, non sarei mai andato a giocare in un’altra squadra italiana. Non ci sarei riuscito. Non ce l’avrei fatta».
Dall’estero arrivarono segnali dal Real e dal Chelsea.
«Non ricordo... È il passato. Io avevo Napoli e se qualcuno pensa che porti con me qualche rimpianto è fuori strada. Ho rinnovato per cinque volte in dodici anni, penso sia un record. Ci volevamo e ci vogliamo bene. De Laurentiis me ne ha voluto e non mi avrebbe ceduto, se non per una cifra pazzesca: gli avrebbero dovuto dare tanti soldi, ma tanti».
Ha lasciato in regalo un suggerimento: prendete Lobotka.
«Ed ho visto ciò che ha fatto quest’anno. Non avevo dubbi sulle sue qualità, che ha finalmente potuto mostrare».
Lobotka sa che è stato lei a consigliarlo al Napoli? Le manderà qualche chilo di mozzarella?
«Lo sa, lo sa, glielo ricordo spesso. E non manda mozzarelle. Glielo ho detto che me le deve».
Come si immagina Hamsik tra un triennio.
«Ho la scuola calcio in Slovacchia e me ne prenderò cura anche in prima persona. Penso che mi verrà la tentazione di allenare i ragazzi, gli Under 15 o 16 o 17, vorrei cominciare con loro, fare un percorso, vedere se ne avrò le capacità».
Intanto, gli eredi crescono e anche bene.
«Christian ha dodici anni, promette bene, ma bene bene. E Lucas ne ha dieci e pure lui dà soddisfazioni. È ancora troppo presto per dirlo, ma sospetto che tra un po’ - cinque o sette anni passano in fretta - dovrete cominciare a parlare di loro due».
Lei è un uomo felice, Hamsik: si vede.
«Lo sono. Quando ero bambino, come tutti a quell’età, speravo di diventare un calciatore. Ma sono andato oltre i miei sogni. So che in Patria vengo guardato con ammirazione e questa è una soddisfazione che non ha prezzo. Sono riconoscente alla mia famiglia, tutta, a mia moglie, a chi mi considera persino un modello, senza che io mi senta tale».