Con FaceTime mi mostra una parte della villa. Lui è a Vancouver, io a Roma. Lui nel suo paradiso privato sull’Oceano Pacifico, io nell’infernale temperatura della capitale. Mariann, la moglie, toglie le foglie cadute lungo il bordo piscina. Protagonisti della videochiamata sono soprattutto i loro due cani. Le sette del mattino nella Columbia Britannica, le quattro del pomeriggio in Italia, Carlo Ancelotti è sveglio da un’ora, è il suo ultimo giorno da cinquantanovenne. «Mi sento alla grande, qui mi restauro. Bici, piscina, lunghe camminate. Riesci a vedere quella striscia di terra laggiù in fondo? Quella è Vancouver, siamo a un quarto d’ora di macchina. Sì, sto alla grande - ripete -, a tavola mi trattengo, ho imparato a farlo, me lo sono imposto il secondo anno a Londra quando stabilii il record del peso, e non si trattava di un lancio».
Spiegati meglio, anche se temo di aver capito.
«La bilancia segnò 101 chili e settecento, luglio 2010. Adesso sono 87, non seguo un regime, rinuncio. Togliendo una quindicina di chili sono riuscito a evitare almeno temporaneamente le protesi alle ginocchia. Hanno resistito a sei interventi, crociati, menisco, uno strazio. Quando mi alzo dal letto le sento scrocchiare paurosamente. Tipico dei calciatori della mia epoca e di quelle precedenti. Anche Capello ha le protesi, e Ottavio Bianchi. Carichi pesanti, balzi, zero prevenzione, ti pagavano soltanto se giocavi e allora scendevi in campo anche quando avresti fatto meglio a restare a letto».
Sei uno che guarda sempre avanti, che si aggiorna costantemente, tuttavia i sessanta sono un traguardo che autorizza qualche bilancio.
«Non li amo, i bilanci, conservo i ricordi, le mie figure fondamentali».
Da chi partiamo?
«Da Liedholm, che si prese cura di me, mi aveva voluto lui, mi insegnò un sacco di cose, anche a stare al mondo. Prima di lui Giorgio Visconti, il mio allenatore negli allievi del Parma, e Bruno Mora. I suoi racconti uno spettacolo, diciamo che fuori dal campo era un discoletto, ma sul campo un maestro, mi insegnò a muovermi, a fare delle scelte. Mi raccontò anche che per giocare titolare menò di brutto un compagno di squadra in allenamento, e lo ruppe. Visconti era stato un buon centrocampista nel Bologna. Tra i giocatori mi viene in mente Mongardi, ex dell’Atalanta, della Spal. Tutta gente alla quale devo tanto. Fino ad Arrigo, il numero uno. Righe ci ha aperto gli occhi, è stato un innovatore, in particolare nella preparazione. Non mollava mai e ancora oggi non molla, è sempre prodigo di consigli, dopo ogni partita arriva la sua telefonata. “Carlo, l’esterno stava un po’ troppo largo”. Ma l’esterno era Ronaldo, Arrigo, lascialo largo, lascialo stare dov’è. Per lui non esiste Ronaldo o un altro, un esterno è un esterno e deve rispettare il copione».
Leggi l'intervista completa sull'edizione del Corriere dello Sport-Stadio oggi in edicola