Napoli, l'erba voglio avvelenata

Napoli, l'erba voglio avvelenata© FOTO MOSCA
Alessandro Barbano
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«Meritiamo di più», gridavano all’unisono i millecinquecento tifosi che hanno contestato gli azzurri dopo la bella vittoria di Frosinone, e che hanno rispedito sgarbatamente al mittente la maglia lanciata da Callejón verso gli spalti in un generoso tentativo di riconciliazione. «Meritiamo di più» è la declinazione calcistica di quella malattia del Paese che ha trasformato i desideri dei cittadini in pretese e ha gettato l’opinione pubblica in una piazza gonfi a di rabbia.
Da queste parti il “dirittismo” è endemico. Ogni sua recrudescenza riporta Napoli indietro di decenni. L’amaro spettacolo di ieri ne è un plastico esempio. Anzitutto perché s’indirizza verso un bersaglio simbolico sbagliato. José María Callejón è, tra tutti i calciatori azzurri, quello che ha dato più di quanto qualunque tifoso potesse pretendere. A 32 anni compiuti festeggiava la trecentesima partita con la maglia azzurra. La costanza del suo rendimento nelle sei stagioni al Napoli è impressionante: su 228 partite in serie A ne ha giocate 222, due volte è rimasto fuori per squalifica, quattro in panchina, ma non certo per sua scelta. Ha segnato 60 gol, ma soprattutto si è adeguato alle richieste dei suoi allenatori che nel tempo ne hanno modificato il ruolo, trasformando un esterno d’attacco in un jolly capace di alzare una diga a centrocampo o sostituire un terzino di fascia. Senza mai risparmiare energie, senza mai un fallo di troppo, senza mai una parola fuoriposto. Se Callejón è diventato l’insostituibile per tre tecnici diversi, come Benitez, Sarri e Ancelotti, ciò si deve alla concentrazione e alla dedizione che senza soluzione di continuità ha profuso.
Restituirgli il regalo di una maglia sudata, dopo una partita stravinta e ben giocata, ha il significato di una profanazione. E mostra tutta intera la sindrome dell’erba voglio di una parte della tifoseria. Un deficit di maturità che fa da specchio a quella fragilità psicologica mostrata dagli azzurri in diverse sfi de decisive, e costata più volte l’eliminazione dall’Europa o la rinuncia allo scudetto a un passo dal traguardo. Ciò prova quanto complessa e articolata sia la formula del successo nel calcio moderno e quanto tutti, società, squadra, tifosi e città, concorrano a conseguirla o piuttosto a disfarla. È proprio la città, quella dei tifosi non organizzati ma ugualmente appassionati, che può ribaltare questo racconto intransigente e distruttivo in un altro più realistico. Vuol dire non nascondere una certa delusione per un finale di stagione calante, ma tenere conto che con l’arrivo di Ancelotti è iniziato un nuovo ciclo ed è presto per sancirne il fallimento; che la Juve dispone di una forza finanziaria sufficiente ad uccidere il campionato; che l’intero calcio italiano paga il prezzo di opacità gestionali, ritardi infrastrutturali e inadeguatezze organizzative; che, da ultimo, il Napoli rappresenta in questo panorama non esaltante una felice eccezione, per saggezza di investimenti e continuità di risultati. Sostenere questa squadra, fischiando chi la fischia ingiustamente, come ha fatto una parte dei tifosi del San Paolo nella gara persa contro l’Atalanta, è ancora una scelta ragionevole.


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