La cosa più bella di questo mestiere - il mio, giornalista - è scoprire i giovani calciatori, innamorarsene (nel senso buono, si tranquillizzi Papa Francesco) e aiutarli a crescere. In tempi lontanissimi - primi anni Sessanta - quando andavo per campi emiliani di D e C, suggerii la potenza guerriera di Mario Bertini, poi detto “il Belva” (le sue spettacolose avventure a Mexico 70 sono ancora raccontate dai reduci del quattrattrè) visto nel Prato e esploso nell’Inter; o l’eleganza di Tazio Roversi, difensore biondo, così per dire, che a 15 anni giocava nel Moglia e a 16 diventò campione nel Bologna. Due per tutti di quell’epoca. Poi ho conosciuto Baggio, nell’85, quando diciottenne uno del Rimini di Sacchi rischiò di stroncarlo e io contribuii a dargli il Premio Diadora che lo santificò anzitempo; e rispondevo ai segnali di un Paolo Rossi che a 16 anni già chiedeva strada nelle giovanili juventine e fu salvato da GB Fabbri. Per non dire di Maradona diciassettenne… ma non lo dico. Il mio primo idolo è stato Renzo De Vecchi, azzurro a 15 anni e mezzo e chissà perché lo chiamarono “il figlio di Dio”. Il più antico dei blues cantava “tutti i figlio di Dio hanno le ali. Tutti i figli di Dio hanno le scarpe”: decisi che fosse l’inno dei giovani pedatori.
Camarda e il racconto su Riva
Ma veniamo al sodo. Quando ho sentito dire che un azzurro - terque quaterque per lui - stava male ho pensato che Spalletti dovesse riparare un torto fatto a Francesco Camarda, classe 2008, milanista, neo campione europeo con l’Under 17 di Favo. Io in Germania l’avrei portato in spalla con i suoi 483 gol segnati in maglia rossonera, visto che quella azzurra è così poco indossata da bomber fruttuosi, come dimostra l’improvvisa e felice passione per Scamacca, l’inviato davvero speciale ad affondare l’Albania.
Camarda mi rammenta un’afflizione storica. Pubblica e privata. Mondiali 1966, ho seguito l’Italia da cronista pivello ma pieno di notizie, il capo mi promette: Italia qualificata, ci raggiungerà a Londra. Fu fermata - fui fermato - a Middlesbrò dal dentista-tipografo nordcoreano Pak Doo-Ik. Fu detto e scritto di tutto. Finché un giorno scavai nella roccia degli Amarcord e trovai la Notizia. Quel giorno - 19 luglio 1966 - mentre i “Ridolini” ci fottevano dopo l’uscita di Bulgarelli, sedeva in tribuna un ragazzo del ‘44 che nel ‘62, nelle giovanili del Legnano, aveva segnato caterve di gol, poi era passato al Cagliari - continuando a farne tanti - e nel ’65 era stato invitato a far parte del Club Italia: si chiamava Gigi Riva.
So che adesso mi diranno di Simone Pafundi che diventò il terzo più giovane calciatore azzurro di sempre, convocato da Mancini a 16 anni, esordiente - vittorioso - proprio contro l’Albania. Non aveva mai giocato in A. Non avrebbe mai giocato in A. Mi ha fatto venire in mente il Pelé della Cina anni Settanta - Rong Zhihong - che per evitargli guai fisici poteva giocare solo in nazionale.
Vabbè. Questo inutile racconto lo dedico a Camarda.