Milan e Napoli, l'età della potenza

Seppur tra mille contraddizioni degli ultimi anni, oggi Pioli e Spalletti hanno due gruppi omogenei
di Alessandro Barbano
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Il Milan che ha assaltato Bergamo senza fare prigionieri aveva un’età media di 24 anni e 277 giorni, tre anni e mezzo in meno dell’Atalanta che ha battuto, tre dell’Inter e del Napoli, due e mezzo della Juve e quasi sei della Lazio, domenica la squadra più vecchia in campo. Un anno in più avevano i pur giovani rossoneri del primo scudetto dell’era Sacchi, conquistato in volata sugli azzurri di Maradona staccati di tre punti, con diciassette vittorie, undici pareggi e due sconfitte. Tra quei fenomeni c’era il diciannovenne Paolo Maldini, oggi dirigente rossonero e padre di uno dei tanti baby gioielli della rosa di Pioli, che compirà vent’anni l’undici ottobre. 
Quando la precocità anagrafica raggiunge la qualità messa in mostra dal Milan contro la fortissima corazzata di Gasperini, c’è di che riflettere sulle strategie di mercato delle società italiane e sui loro buchi di bilancio. Perché nella busta paga di Elliott ci sono anche due stipendi pesanti come quelli di Ibrahimovic e Giroud. E nessuno scommetterebbe che i due vecchietti - lo svedese ha appena compiuto quarant’anni, il francese trentacinque - giocheranno insieme più di un terzo delle partite dei rossoneri in questa stagione. Né si può credere che i loro lauti ingaggi rispondano all’esigenza di avere due chiocce per allevare pulcini d’oro, poiché i pulcini come Leão hanno da tempo rotto il guscio, e niente può giovar loro più del giocare, giocare, giocare. 

C’è da chiedersi se il contratto dei senatori non risponda più ai timori manageriali del club che alle necessità di Pioli, cui tanta abbondanza potrebbe anche andare di traverso. Staremo a vedere, resta il fatto che il Milan sta dimostrando, complici gli infortuni dei suoi attempati top player, che una squadra non ancora venticinquenne per età media possa sviluppare una potenza atletica e un valore tecnico senza pari.

Quando si dice che la pandemia ha bloccato il mercato di molte società, si dice una mezza verità. La metà che manca riguarda il modo in cui sono state costruite molte ricche rose delle squadre di vertice, cioè per giustapposizione di cartellini, assemblati in coincidenza con i frequenti cambi di panchina o di direzione sportiva. Cosicché il Napoli, per fare un esempio, si ritrova con tre centravanti e sette pedine in attacco, ma due soli terzini di ruolo, Di Lorenzo e Mario Rui, a cui si aggiungono due rincalzi, Malcuit e Ghoulam, su cui nessun tecnico titolato, se potesse, scommetterebbe. Bloccando gli scambi, la pandemia ha piuttosto impedito di correggere gli errori compiuti negli anni delle vacche grasse.

Un po’ di chiarezza e di coraggio nelle strategie societarie non farebbe male al nostro calcio. E consentirebbe di costruire quei famosi cicli, di cui tanto si parla sapendo di mentire. Perché un ciclo presuppone una fiducia stabile a un allenatore prescindendo dai risultati immediati e per un numero di anni sufficiente a consolidare un’identità; un investimento sui vivai e sui talenti reperibili a prezzi vantaggiosi sui mercati internazionali; una strategia di mercato che sia tutt’uno con una filosofi a di gioco condivisa tra guida tecnica e dirigenza.

Il Napoli e il Milan non rispondono a questo schema ideale, ma tra mille contraddizioni i loro errori degli ultimi anni non hanno del tutto oscurato un disegno strategico. Che oggi consegna a Spalletti e a Pioli due gruppi relativamente omogenei. Come segnala Alberto Polverosi nell’articolo qui a fianco, la classifica racconta a sette turni dal via questa maggiore coerenza delle due storiche rivali. Con i suoi quasi ventotto anni di età media, il Napoli è un frutto oggi più maturo del Milan, ma non privo di asimmetrie, che Spalletti ha fin qui dimostrato di saper bilanciare con qualche invenzione tattica - Fabian Ruiz regista -, qualche ricambio coraggioso - Rrahmani al posto di Manolas -, e qualche iniezione di fiducia - Elmas universale, a seconda delle necessità. Dopo un mercato asfittico e dopo il ricambio di molte panchine, il campionato è una spietata prova di realismo: sta davanti chi ha fatto meglio i conti con i propri difetti.

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