Lazio, volare bassi e schivare i sassi

Il derby è delirio e sollievo: ti ricordi dov’eri e con chi eri quando ci pensi. Con i tifosi dall’altra parte del tavolo la stagione non finisce mai
Malcom Pagani
8 min

Siamo i gatti neri, siamo i pessimisti, siamo i cattivi pensieri. «Oggi si perde». La domenica è il nostro mare. C’è il derby e quel mare è profondo. C’è il derby e l’aria è di tempesta. Ne conosciamo i venti ed i pericoli, le secche e i mulinelli, l’onda che soffoca le altre, la gioia selvaggia del gol, il tumulto che precede l’estasi, il timore di essere delusi. La paura del portiere prima del calcio di rigore è anche la nostra, il film che interpretiamo da quando siamo bambini, per restare tali e non crescere mai.
La prima volta che ho visto la Lazio non superavo il metro e trentaquattro. All’Olimpico mi portò mio nonno Alvaro che da ragazzo in mutande, con la maglia numero 9, si era arrampicato per un ciuffo di mesi fino alla serie B. Alvaro che tifava per la Juventus e che allo stadio Olimpico, disgustato, non metteva piede da più di dieci anni. Per Peter, il futuro marito americano di sua figlia, un uomo non baciato dal dono della statura, aveva acquistato infatti due costosi biglietti di tribuna per assistere a una gara dell’Italia, ma una volta arrivato al suo posto l’aveva trovato occupato da un altro spettatore. Alla richiesta di riavere ciò che gli spettava di diritto si sentì ridere in faccia «Er posto è tuo? Fai ‘na bella cosa va, spostame te» e da allora, mentre il promesso genero si alzava inutilmente sulle punte accorgendosi di non poter vedere altro che spalle e nuche, e dopo un’ora e mezza di moccoli, riflessioni dolenti sullo stato del genere umano e difese d’ufficio del suolo patrio «gli italiani, ti assicuro, non sono tutti così», Alvaro aveva promesso a sé stesso di chiuderla lì e relegare il vero amore di una vita alla parentesi televisiva che il servizio pubblico offriva con rispettabile puntualità alle dieci e mezza della sera.
Ma il nipote che tirava calci al pallone e collezionava figurine di uomini in divisa, perennemente sorridenti e a petto in fuori con l’estate davanti e un prato sullo sfondo, un giorno, a tradimento, glielo chiese: «Perché non mi porti a vedere una partita?». Il nonno era un uomo buono e rispose di sì. Faceva freddo e ci coprimmo come se andassimo a Stalingrado. Salimmo sul tram che allora come oggi costeggia Villa Borghese, cedemmo un paio di monete al controllore, scendemmo per percorrere a piedi l’ultimo lungo tratto di strada e poi cominciammo a vedere le bandiere. In marcia ordinata entrammo in un’altra dimensione. Ci girammo verso la curva che all’epoca, come il resto della struttura era senza coperture e sotto quel cielo grigio, con il fumo colorato che saliva in alto, riuscii a leggere lo striscione. «Noi con la voce/voi con il cuore» c’era scritto. Provai a ragionarci e incontrai lo sguardo di mio nonno. Sorrideva come quando dopo tanto tempo incroci un amico con cui è finita male e all’improvviso hai dimenticato le ragioni dell’alterco.
Di quell’educazione sentimentale ricordo soprattutto il desiderio di appartenenza. Lo stadio ti accoglie, ti abbraccia, ti cinge. Lo stadio ti invita. L’unica liturgia obbligata del rito è abbandonarsi alla collettività. Mi sacrificai, felice, fin dal primo giorno. Con la Sambenedettese finì in pareggio, il portiere della squadra ospite si chiamava Walter Zenga e in difesa, nella Lazio, sbuffava lo stesso eroe sgraziato dalla biografia romanzesca e dall’ostinato coraggio della libertà che ad Alessandro Piperno aveva ispirato una meritata cambiale in bianco. Certe fratellanze sono già fisiognomica. Si intuiscono senza bisogno di prove, documenti o burocrazie: «Mi si poteva incontrare per Roma con la maglia di Arcadio Spinozzi, un libero all’antica il cui viso sembrava essere divorato dalla barba. Arcadio Spinozzi era la Lazio. Quella maglia d’un blu assai più elettrico di quanto apparisse in Tv era tutta per Arcadio. La mia Arcadia».
Per Natale scrissi una lettera velatamente ricattatoria, piena di enfasi e retorica. Volevo una maglia della Lazio e una maglia ottenni costringendo mio padre a un’insistente questua in un noto negozio a due passi dal Policlinico che quelle divise, in numero assai limitato, forniva alla stessa Lazio. Un anno passa, un anno vola, un anno cambia faccia. Dodici mesi dopo, io e il signor Alvaro tornammo a vedere la Lazio. Era l’anno dei Mondiali, quelli dell’82 e l’isola incantata, ancora non lo sapevamo, si chiamava Madrid. Indossai il mio regalo. Il Como aveva una maglia rosso fuoco. Si lottò, si imprecò, si sperò. Alla fine fu due a due. Lo stesso risultato che pochi anni prima aveva fatto piangere Tom Maestrelli in riva al lago, nell’ultimo struggente fotogramma di un amore che da bambino ignoravo e che a definirlo, da adulti, ci si scopre inadeguati. Abbracciai mio nonno con forza a ogni boato, abbracciai gli sconosciuti, le signore bionde, i vecchi con la sciarpa al collo. Iniziò a piovere. La seconda volta fu fatale. A pochi mesi dai miei primi sette anni avevo deciso di darmi un’identità definitiva. Nel luogo più democratico d’Italia, nel posto in cui la fede, senza distinzione di censo, sesso o religione, è professata in una sorprendente dialettica che sfiora l’eresia, nella piazza in cui si litiga, si discute, ci si sente tutti allenatori e quasi mai si è d’accordo con la soluzione del vicino, sono tornato per decenni.
Da abbonato, in curva o estemporaneamente, per qualche esibizione di retroguardia nella coppa nazionale a metà settimana mollando il motorino a venti minuti dall’inizio e acciuffando un biglietto al botteghino. Per la Lazio ho viaggiato, mi sono arrabbiato, mi sono commosso. Per la Lazio ho litigato, ho avuto paura, ho-anche-mentito. Stasera c’è il derby e a Roma, tra i miei amici, per dirla con il cantautore che tifa per la Roma, un ottimista che si illumini d’immenso non lo trovo neanche a pagarlo. «Volare bassi per schivare i sassi» diceva Bibi Ballandi. E aveva ragione. La saggezza sarà anche la prudenza più stagnante, ma aiuta a sopravvivere. Il derby è scaramanzia, oscurantismo, medioevo. Il derby è delirio e sollievo: ti ricordi dov’eri e con chi eri quando pensi a Lucas Castroman, a Igor Protti, a Paul Gascoigne. A quelli dell’ultimo minuto perché vincere è importante, ma non perdere lo è di più. Prima regola del fight club: non straparlare. Seconda: mostrarsi umili. Terza: pregare e desiderare con ogni stilla d’energia la sconfitta dei rivali. D’altra parte, che volete? La nostalgia è qualcosa che ti sfugge tra le dita e la dannazione invece dura mesi. La presa in giro si storicizza, l’impresa sportiva si fa graffito, stencil, storia, damnatio memoriae. Non faremo dunque torto al derby e alla verità e non ci siederemo dalla parte della ragione.
Siamo quelli che provocano, quelli che esasperano, quelli che si fanno detestare. I faziosi, gli sciocchi, i puerili, persecutori telefonici dei nostri avversari. Quelli con cui andiamo a pranzo e con cui passiamo le vacanze. Quelli che tifano Roma e con i quali, con la bassa intensità che si deve al vivere civile, all’ironia e al senso del ridicolo, la stagione non finisce mai. Oggi c’è il derby. Ci vogliamo bene, ma siamo seduti a un altro tavolo. Come demiurghi, Lazio e Roma hanno due persone meravigliose. Li stimo molto, voglio bene a entrambi ed è l’unica concessione che mi sento di fare alla sportività e al terzo tempo. Stanotte ho dormito male e adesso ho voglia di stare da solo. La sciarpa è nell’angolo, al solito posto. Le chiavi nella giacca. Gigot gioca o va in panchina?


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