Lazio, Castellanos e quei colpi alla Salas

Leggi il commento del Corriere dello Sport-Stadio sull'attaccante argentino
Stefano Chioffi
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Leopoldo Luque, campione del mondo nel 1978 con l’Argentina di Menotti e Kempes, era andato a scoprirlo a Villa Nueva di Guaymallén, nel barrio Santa Ana, in provincia di Mendoza. Ferran Soriano, amministratore delegato del City Football Group, aveva deciso di acquistarlo nel 2018 per 150.000 dollari dall’Universidad de Chile. Pere Guardiola, fratello di Pep e presidente del Girona, l’ha portato in Spagna nel 2022 dopo trentacinque gol in Major League. Loro tre, in periodi differenti, hanno sempre creduto che Valentin Castellanos potesse diventare un ottimo centravanti. La Lazio ha continuato a pensarlo anche un anno fa, quando Taty sembrava un enigma, soffriva le staffette con Immobile e si sentiva dentro un labirinto. Ogni minuto era un esame. Sembrava il gemello diverso dell’attaccante che in Spagna aveva demolito il Real Madrid con quattro reti: un capolavoro che mancava dal 1947, a firmare l’ultimo poker era stato un basco, Esteban Echevarria, che giocava nell’Oviedo. Castellanos ha cambiato la sua vita in due mesi: decisivo negli schemi di Baroni e nei piani del ct Scaloni. Tre gol in campionato, la magnifica doppietta in Europa League contro il Nizza, due rigori procurati, tre pali colpiti, la convocazione nell’Argentina campione del mondo e del Sudamerica. Negli spazi stretti ha una gestione del pallone che ricorda quella di Marcelo Salas, cinque trofei con la Lazio di Eriksson. Ma non è l’unico punto in comune. Somiglia al Matador anche per lo scatto, la postura, il colpo di testa, la bellezza dei gol, la capacità di partecipare alla costruzione della manovra. E poi c’è un altro particolare: provengono dall’accademia dell’Universidad de Chile. Castellanos ha un’eleganza da numero dieci: lettura dei movimenti e ricerca del corridoio. I suoi colpi sono raffinati, come lo erano quelli di Salas, che sapeva anche valorizzare le caratteristiche dei compagni: da Vieri a Boksic, da Mancini a Inzaghi.
La Lazio non ha mai avuto la tentazione di cederlo in estate. Neppure quando il Girona aveva accarezzato l’idea di riportarlo nella Liga. La preoccupazione di aver sbagliato un investimento da quindici milioni non è mai emersa nei ragionamenti di Lotito e Fabiani. Baroni ha restituito a Taty una centralità. L’ha avvicinato alla porta, gli ha costruito intorno una Lazio che verticalizza di più e arriva spesso al cross: è cambiata la mentalità, il baricentro si è alzato, la squadra porta in area sei o sette giocatori, c’è l’idea costante di sviluppare l’azione in profondità. Il tiki-taka di Sarri e i sistemi di Tudor non si sposavano con le caratteristiche dell’argentino, che aveva faticato a ingranare per una serie di motivi: il turnover sistematico, la concorrenza di Immobile, i paragoni con Ciro, i problemi interni di una Lazio in cui tutti deludevano, i tempi di inserimento quasi fisiologici al calcio italiano. Un rodaggio che si era rivelato una tassa anche per un fenomeno come Lautaro Martinez, autore di sei gol (due in più del Taty) nel suo primo campionato con l’Inter.


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